Ehi tu, delusa: 199X (parte 1)
A volte dagli hard disk saltano fuori cose assurde, bolle temporali dimenticate e pronte ad esploderti in faccia con la forza di una big babol gonfiata da Superman col supersoffio. Metti questo racconto, che hai scritto a fine anni 90, travasato su un paio di computer e quindi abbandonato al suo destino di polvere digitale in una chiavetta di memoria di una quindicina di anni fa. A rileggerla ora, questa roba buttata giù quando avevi la metà degli anni che hai ora, ti fa tenerezza e un po' imbarazzo, tenerazzo. Prima di lasciarla tornare nell'oblio, hai pensato di regalarle un giro quaggiù, in questo covo di deboscia, come ai tempi dei racconti a puntate, quelli finiti (come Badass Bastards 2.0) e quelli non (Frankie se ne va a Hollywood). Così com'era, senza toccare nulla. Se vi piace questa prima parte si continua con le altre: due o tre post dovrebbero bastare, credi. Lasci la parola a Willy ed Elpi: vogliate loro un po' bene, per i personaggi di un raccontino tardogiovanile acerbo quali sono.
Mi chiamo Willy, ho ventotto anni e una laurea che non mi servirà mai a nulla. E sto per morire.
Sono chiuso nello scompartimento crematorio di un treno Intercity così tipicamente anni 90, nel senso che non funziona un cazzo. È giugno, fuori ci saranno trenta gradi e un sole da film di Leone, di quelli che ti sparano in mezzo agli occhi dopo aver sputato a terra un po' di tabacco masticato e disprezzo nei tuoi confronti. Ma i riscaldamenti - già - sono a mille e, come sentenziato da un comitato formato da capotreno, controllore e anziano rompicoglioni ficcanaso tuttologo, proprio non li si riesce a spegnere. A metà cottura dice che mandano qualcuno a girarci.
Cerco di prendere sonno, voltandomi e rivoltandomi sul sedile che in un'epoca remota deve aver conosciuto il rosso e l’arancione. Riuscissi a dormire, almeno un po', per comprimere il tempo che mi separa dalla riconquista dell’aria, dall’uscita dal forno. Senonché. Se non che qualcuno, un paio di scompartimenti più in là, sta provando tutte le dannatissime suonerie del suo stramaledettissimo cellulare.
Popeye, Per Elisa, La Cucaracha.
Puttana Eva. [...]
Con la testa appoggiata al finestrino – l’unica cosa che abbia conservato una parvenza di fresco in tutto il treno – mi guardo attorno nello scompartimento vuoto, con occhi nervosi.
Un gruppo di ultrà ha tatuato a uniposca i propri cori sotto la cappelliera.
Logore targhette in metallo ottonato precisano in tre lingue diverse come sia rigorosamente vietato lanciare oggetti dal finestrino. Come sia assolutissimamente proibito sporgersi dal finestrino. Un finestrino che è impossibile aprire: grazie per la premurosa presa per il culo.
Se si aprisse, getterei un intero sedile fuori e mi sporgerei a gridare fortissimo Suca! alla campagna là fuori. Gli InterCity sono i nuovi carri interregionali. Gli interregionali sono i nuovi carri bestiame.
Un paesaggio piatto e bruciato dal sole – fatto di campi di grano e uliveti, rovi ed erbaccia cui la stagione ha dato il colore della paglia – al di là del vetro, inscurito dagli anni e dallo sporco, non offre alcuna distrazione. Il serpentone di metallo sfreccia rumoroso nelle campagne del primo Meridione italiano, a una velocità più o meno pari a quella con cui mi girano i coglioni.
La porta dello scompartimento, uscita dal suo binario, urta contro il sostegno a ogni sobbalzo del vagone. Una bottiglietta di plastica vuota rotola avanti e indietro nel corridoio, abbandonata al suo destino. Esco a farle compagnia.
Cerco una parola per descrivere questo scenario surreale. “Incubo” non rende bene l’idea, ma è la prima che mi viene in mente.
Dall’altro lato del vagone una donna sui trentacinque, sfatta dal caldo ma distinta, regge con un braccio il figlio e con l’altro agita un cartoncino pubblicitario per buttarsi in faccia un po' di aria. Il sudore o il bambino – o entrambi – le hanno sbavato il trucco sotto un occhio e strapazzato l’acconciatura. Ciuffi di capelli, sfuggiti all’accrocco sulla nuca, le svolazzano davanti agli occhi, concedendo un tocco selvaggio alla sua figura elegante.
A non più di un paio di metri, un tipo in maniche di camicia e cravatta è impegnato in una fitta conversazione telefonica. Parla alla sua Orsacchiotta. Già, “Orsacchiotta”.
Abbiate pietà della sua anima.
Dice alla sua Orsacchiotta che l’ama e che non vede l’ora di riabbracciarla. Che è pazzo di lei, che è questo, che è quello. Un bacio, ti amo, saròprestodate. Due secondi dopo riceve un’altra chiamata. Un’altra donna, lo capisci subito da un nuovo, più convinto “ti stavo pensando”. La donna elegante sorride divertita dalla scena e mi rivolge, proprio mentre il figlio le appiccica le manine sulla faccia, uno sguardo come per dire “ma guarda che figlio di puttana”. Sorrido di rimando, sforzandomi di sollevare gli angoli della bocca. What is love, baby don't hurt me.
Ancora suonerie.
L’ignoto rompicoglioni continua a passare in rassegna melodie e temi di film, jingle e sigle di vecchi serial TV. Mission: Impossible, un pezzo di Nek, l’Inno alla gioia, Happy Days, il Pranzo è Servito.
Lo strangolo subito o prima lo tramortisco picchiandogli in testa duecento volte il suo nokia del cazzo?
Ore 19 e spicci
Il treno si ferma in un paesino che chiaramente non esiste, è solo il set di un film postapocalittico, in un punto imprecisato tra la Campania, la Basilicata e la Carolina del Sud. La struttura è cadente, quasi interamente coperta da erbacce e abbracciata dai rovi. Non sale nessuno, non scende nessuno. La voce meccanica del DJ marziano delle ferrovie dello stato annuncia il treno solo quando stiamo andando via.
Una vecchia cassetta dei 99 Posse e un ancor più anziano walkman da battaglia sostengono i miei sforzi di conservare la sanità mentale fino all’arrivo. Finché durano le pile, finché duro io. Ancora non sono passati a cospargerci di olio con un ramoscello di rosmarino.
Ore 20,15
Alla stazione ci sono solo poche anime, non tutte vive. Come sempre.
L’aria è fresca - sono tentato di gettarmi in ginocchio dalla gioia - e carica di elettricità. Densi nuvoloni neri coprono il cielo, donandogli il colore dell’asfalto e promettendo un acquazzone di quelli invadenti. Un vento leggero monta da nord, andando a disturbare il sonnacchioso riposo di una fila di piccioni sui cavi dell’alta tensione.
I muri della piccola stazione – quattro binari, di cui uno mai utilizzato, un bar e una biglietteria che resta aperta tipo dodici minuti alla settimana – sono stati imbiancati di fresco. Molto di fresco: qualche giorno fa, quando sono partito, erano ancora tutti pieni di scritte. Indiscutibili saggi di cultura popolare. Testimonianze storico-demoscopiche come “Mi sono congedato. Mario, scaglione 4/02, morite tutti”. Dietro le quinte della vita privata di onesti cittadini, riassunti, con veloci tratti di pennarello, in frasi del tipo “Luisa è una gran troia”. Annunci commerciali di dubbia attendibilità – “Se vuoi scopare chiama il numero…” – poesie di matrice scatologico-sessuale, professioni di fede nei confronti della propria squadra del cuore, graffiti testimonianti il modo in cui si è sottratta alla scuola un’assolata mattina della propria esistenza.
Fare sega a scuola, fatti una sega, fotte una sega. Tutto il mondo delle scritte delle stazioni delle cittadine d'Italia e forse anche del mondo ruota attorno all'autoerotismo. Datemi una pippa e vi solleverò l'universo.
Roba da passarci il tempo. Ora è invece tutte le pareti sono bianche. Come quelle di un ospedale, ma senza la puzza d’alcol. Come quelle di un asilo, ma senza le manate dei bambini. Come quelle di una casa nuova, solo che in una casa nuova i pavimenti piastrellati non sono così lisi e tempestati di cicatrici nere lasciate dai mozziconi di sigaretta.
Proprio vicino alle panchine, su una colonna, qualcuno ha già avuto il tempo, comunque, di violare il rinnovato candore acrilico con una bomboletta spray rossa. E di ribadire che sì, “Luisa è una gran troia”. Che gli avrà fatto mai Luisa a ‘sto tipo, mi chiedo.
Tiro su il colletto della felpa leggera che mi sono infilato sulla canotta e inizio a trascinarmi dietro la sacca. Esco dalla stazione e lo trovo esattamente dove immaginavo che fosse.
Elpi mi sta aspettando seduto sul cofano del suo cinquino, appostato vicino a un vecchio taxi perennemente a corto di clienti, immediatamente fuori alla stazione.
I capelli biondi, portati spettinati all’inglese, formano una frangia ordinata che arriva a lambirgli gli occhi. Elpi indossa un giubbino da barca sulla polo con il coccodrillo, pantaloni a coste e scarpe da tennis da 250mila lire. Il mento magro è munito di quella che potremmo definire solo l’ultima delle sue sperimentazioni in fatto di barbe et similia. Messe via le basette lunghe, che quando sono partito gli arrivavano a toccare la mascella, ora esibisce un pizzetto sottilissimo, di quelli che sembrano disegnati con la matita e che ti fanno perdere ogni mattina mezz’ora per tenerli in ordine.
Ma, attenzione, contrariamente a quel che potreste giustamente pensare in questo momento, Elpi non è un fighetto. Per nulla.
Lui e io ci siamo conosciuti al centro sociale Electra e abbiamo legato subito. Ha una libreria stracolma di titoli interessanti, una cultura generale mostruosa e idee politiche molto chiare. Idee che, peraltro, lo hanno portato a sviluppare una particolare linea di condotta. A ogni manifestazione, sit-in, protesta, Elpi è l’unico a presentarsi in giacca e cravatta, con giubbini di camoscio e scarpe di marca, con pantaloni di velluto, maglioncini di filo e pettinature da modello. Così è l’unico a non essere mai manganellato, strattonato, spinto, percosso, insultato, preso a calci e pugni e sputi da celere and police. Quando siamo stati, insieme a tutti gli altri ragazzi del centro, al G7 di Napoli, un assaggio di manganello lo abbiamo avuto tutti, compreso un fotografo free-lance di Livorno che si era aggregato al gruppo. Tutti tranne Elpi. Niente. E “scusi signore” e “si allontani da questa gentaglia, signore” e “venga, venga via”. Barcellona, uguale. Berlino… no, lì non è venuto ché aveva l’influenza.
Ma non dovete pensare che sia un vigliacco. Elpi si considera una sorta di agente segreto al servizio delle forze del bene e, al contempo, un simbolo vivente dell’ipocrisia che guida le azioni di quelle teste di cazzo quando caricano. “Picchia quelli sporchi, lascia stare gli altri: li addestrano così quei figli di puttana”, è solito ripetere ogni tre secondi, soprattutto a se stesso. Il lato positivo di questa delirante filosofia personale? Quando c’è Elpi al volante non devi temere di essere fermato a ogni singolo posto di blocco dai caramba.
Mai.
Non mi viene incontro. Resta con il culo sul cofano del cinquino, guardandomi con quel suo sorriso da cazzone – a metà tra Brad Pitt e Jim Carrey. Ma più Jim Carrey – dipinto in faccia.
“Gioventù, com’è andato il viaggio?”
“Un cazzo di inferno, lasciamo perdere…”
“Salta dentro, giovane, che stasera c’ho un programmino per festeggiare il tuo rientro”, mi fa con quell’entusiasmo da ragazzino che anima tutte le sue frasi.
Butto la sacca sul sedile posteriore del cinquino, salgo in macchina, affondo il volto sui palmi delle mani. “No, guarda, stasera no… Non ce la faccio proprio. Stò ‘na pezza”
“Ma quale pezza e pezza. Non fare il minchione. Ti dico che c’ho un programmino vuol dire che c’ho un bel programmino”
“Dai, non insistere. Proprio non… ma cos’è ‘sta puzza?”
“Quale puzza?”
Cerco e trovo nel posacenere il cadavere di un alberello giallo limone malato. “Ah, è st’Arbre Magique del cazzo! Ma che cavolo di…”
“Puzza? È Vanilla Special! Era in offerta e l'ho pagato solo duemila lire.”
“Pensa che culo…”
“Ma lo sai che sei proprio intrattabile? – Elpi inserisce le chiavi nel quadro e, fissando la strada, mette su un muso di rappresentanza – La prossima volta, cazzi che ti vengo a prendere!”
Inizio a ridere, poi, afferrando la sacca dal sedile posteriore, frugo al suo interno alla ricerca del sacchettino trasparente.
“Animo! Willy ti ha portato un regalino dalla capitale…”
“Mi-ti-co!! Ci fermiamo da qualche parte e me ne fai provare un po’”
“Ti ho detto che sono stanco morto”
Elpi scopre un ghigno a sessantotto denti, quindi, dimentico della strada per diversi, pericolosissimi secondi, gira il capo di novanta gradi verso di me: “E io ti ho detto che c’ho un programmino…”
Il vero nome di Elpi, per la cronaca, è Elpidio. Se incontrate uno che di nome fa Elpidio, non potete che immaginare che lo sventurato sia una delle tante vittime della barbara usanza di affibbiare a tuo figlio il nome di tuo padre ANCHE quando quest’ultimo è palesemente ridicolo e il povero ragazzo verrà condannato sin dal giorno zero a una vita di prese per il culo. Cosa non si fa per i soldi. Dunque Elpidio aveva ricevuto il proprio aberrante nome come acconto sull’eredità del nonno, giusto? Sbagliato. Perché suo nonno si chiama Luigi.
Il punto è che Elpi di cognome fa Bianchi, e il padre, per evitargli problemi di omonimia e renderlo "speciale", ha ben pensato di regalargli tale gioiello di originalità come nome di battesimo. Futuro d'inferno negli anni della scuola media in omaggio alla cassa. Elpi, come soprannome, non è che risolva molto il problema, ma lui ormai se n’è fatto una ragione. Ha imparato a ripetere tre volte il proprio nome di battesimo a impiegate oche di uffici pubblici e banche, e a sopportare le risatine di corredo.
Elpi ha ventisette anni, e nella vita non fa un cazzo. Ha deciso di abbandonare Ingegneria dopo un paio di giorni di lezione, pur lasciando che i genitori si sobbarcassero le tasse universitarie per altri due d’anni. Ora tira su qualche soldo lavorando – si fa per dire – nel negozio di elettrodomestici del padre. Il resto del tempo lo impiega incollato davanti un televisore, a sfondarsi di videogame, o al monitor blu del suo Mac, impegnato a buttare giù i suoi progetti di conquista del mondo. Il disco rigido del suo computer è tutto un susseguirsi di file con nomi piuttosto indicativi: “Per una società meno plutocratica, Ver. 2.1”, “Discorso alle coscienze”, “La sinistra giovanile oggi, vista da un giovane di sinistra”, and so on.
Ore 21,05
Il cinquino è abbandonato in una piazzola di sosta, circondata da alti pioppi che hanno sparso tutt’intorno tonnellate di polline. Sembra quasi di essere immersi in un mare di cotone idrofilo. Le nuvole si sono fatte ancora più nere e basse di prima. In fondo alla strada, tra i palazzi, si congiungono con l’asfalto. All’interno dell’auto, per nostalgia da primi anni 80, il fumo ha creato una densa cortina di ferro. Con le pupille dilatate e il bianco degli occhi solcato da sottili venuzze rosse, ci godiamo gli ultimi tiri in un silenzio di tomba, in pace col mondo. Elpi muove lentamente la testa avanti e indietro, a occhi chiusi. Il sorriso incorniciato dal pizzetto disegnato meriterebbe di esser immortalato e mostrato ai posteri, quale simbolo chiarissimo della dissolutezza dei giovani di fine secolo. O delle di facce di cazzo da competizione che ti regala il consumo di cannabis.
Saggio con la nuca la consistenza del poggia testa. Guardo fuori le nuvole di polline sollevate in un turbine bianco da una brezza fresca.
“Beh, dov’è che mi volevi portare stasera?”, chiedo con indifferenza.
“Hai visto che ti ho fatto cambiare idea?”, risponde lui, felice come una Pasqua.
“Ho detto ‘volevi’. Era solo così, per sapere…”
“Seee. Dillo che ti ho convinto ma non vuoi fare la figura di merda”
“Dove?”
“Ammettilo”
“Dove?”
“Prima ammetti che sei un cazzone pentito”
“Ok, ok. Dove?”
“Non mi ricordo di preciso. A casa di una che conosce Salvo. È una festa. Ci ha invitati lui”
“Salvo? È ancora vivo quel soggetto?”, chiedo, perplesso.
Elpi ha preso a passare in rassegna le tasche del suo giubbino. Ma si muove ancora al rallentatore. Come un bradipo immerso fino al collo nella melassa. “Soggetto un cazzo. Quello è pieno di figa”
“Ma chi, quello che a scuola parlava coi rutti?”
“Eh, a scuola parlava coi rutti e ora va in giro con le fighe… Aspetta, l’indirizzo me lo sono appuntato qui e… oh, merda!”. E solleva gli occhi al cielo.
“Cosa?”.
“L’indirizzo. L’avevo scritto su una Rizla”
“E…?”
“Indovina, genio. Ce lo siamo appena fumato!”.
Mi chiamo Willy, ho ventotto anni e una laurea che non mi servirà mai a nulla. E sto per morire.
Sono chiuso nello scompartimento crematorio di un treno Intercity così tipicamente anni 90, nel senso che non funziona un cazzo. È giugno, fuori ci saranno trenta gradi e un sole da film di Leone, di quelli che ti sparano in mezzo agli occhi dopo aver sputato a terra un po' di tabacco masticato e disprezzo nei tuoi confronti. Ma i riscaldamenti - già - sono a mille e, come sentenziato da un comitato formato da capotreno, controllore e anziano rompicoglioni ficcanaso tuttologo, proprio non li si riesce a spegnere. A metà cottura dice che mandano qualcuno a girarci.
Cerco di prendere sonno, voltandomi e rivoltandomi sul sedile che in un'epoca remota deve aver conosciuto il rosso e l’arancione. Riuscissi a dormire, almeno un po', per comprimere il tempo che mi separa dalla riconquista dell’aria, dall’uscita dal forno. Senonché. Se non che qualcuno, un paio di scompartimenti più in là, sta provando tutte le dannatissime suonerie del suo stramaledettissimo cellulare.
Popeye, Per Elisa, La Cucaracha.
Puttana Eva. [...]
Con la testa appoggiata al finestrino – l’unica cosa che abbia conservato una parvenza di fresco in tutto il treno – mi guardo attorno nello scompartimento vuoto, con occhi nervosi.
Un gruppo di ultrà ha tatuato a uniposca i propri cori sotto la cappelliera.
Logore targhette in metallo ottonato precisano in tre lingue diverse come sia rigorosamente vietato lanciare oggetti dal finestrino. Come sia assolutissimamente proibito sporgersi dal finestrino. Un finestrino che è impossibile aprire: grazie per la premurosa presa per il culo.
Se si aprisse, getterei un intero sedile fuori e mi sporgerei a gridare fortissimo Suca! alla campagna là fuori. Gli InterCity sono i nuovi carri interregionali. Gli interregionali sono i nuovi carri bestiame.
Un paesaggio piatto e bruciato dal sole – fatto di campi di grano e uliveti, rovi ed erbaccia cui la stagione ha dato il colore della paglia – al di là del vetro, inscurito dagli anni e dallo sporco, non offre alcuna distrazione. Il serpentone di metallo sfreccia rumoroso nelle campagne del primo Meridione italiano, a una velocità più o meno pari a quella con cui mi girano i coglioni.
La porta dello scompartimento, uscita dal suo binario, urta contro il sostegno a ogni sobbalzo del vagone. Una bottiglietta di plastica vuota rotola avanti e indietro nel corridoio, abbandonata al suo destino. Esco a farle compagnia.
Cerco una parola per descrivere questo scenario surreale. “Incubo” non rende bene l’idea, ma è la prima che mi viene in mente.
Dall’altro lato del vagone una donna sui trentacinque, sfatta dal caldo ma distinta, regge con un braccio il figlio e con l’altro agita un cartoncino pubblicitario per buttarsi in faccia un po' di aria. Il sudore o il bambino – o entrambi – le hanno sbavato il trucco sotto un occhio e strapazzato l’acconciatura. Ciuffi di capelli, sfuggiti all’accrocco sulla nuca, le svolazzano davanti agli occhi, concedendo un tocco selvaggio alla sua figura elegante.
A non più di un paio di metri, un tipo in maniche di camicia e cravatta è impegnato in una fitta conversazione telefonica. Parla alla sua Orsacchiotta. Già, “Orsacchiotta”.
Abbiate pietà della sua anima.
Dice alla sua Orsacchiotta che l’ama e che non vede l’ora di riabbracciarla. Che è pazzo di lei, che è questo, che è quello. Un bacio, ti amo, saròprestodate. Due secondi dopo riceve un’altra chiamata. Un’altra donna, lo capisci subito da un nuovo, più convinto “ti stavo pensando”. La donna elegante sorride divertita dalla scena e mi rivolge, proprio mentre il figlio le appiccica le manine sulla faccia, uno sguardo come per dire “ma guarda che figlio di puttana”. Sorrido di rimando, sforzandomi di sollevare gli angoli della bocca. What is love, baby don't hurt me.
Ancora suonerie.
L’ignoto rompicoglioni continua a passare in rassegna melodie e temi di film, jingle e sigle di vecchi serial TV. Mission: Impossible, un pezzo di Nek, l’Inno alla gioia, Happy Days, il Pranzo è Servito.
Lo strangolo subito o prima lo tramortisco picchiandogli in testa duecento volte il suo nokia del cazzo?
Ore 19 e spicci
Il treno si ferma in un paesino che chiaramente non esiste, è solo il set di un film postapocalittico, in un punto imprecisato tra la Campania, la Basilicata e la Carolina del Sud. La struttura è cadente, quasi interamente coperta da erbacce e abbracciata dai rovi. Non sale nessuno, non scende nessuno. La voce meccanica del DJ marziano delle ferrovie dello stato annuncia il treno solo quando stiamo andando via.
Una vecchia cassetta dei 99 Posse e un ancor più anziano walkman da battaglia sostengono i miei sforzi di conservare la sanità mentale fino all’arrivo. Finché durano le pile, finché duro io. Ancora non sono passati a cospargerci di olio con un ramoscello di rosmarino.
Ore 20,15
Alla stazione ci sono solo poche anime, non tutte vive. Come sempre.
L’aria è fresca - sono tentato di gettarmi in ginocchio dalla gioia - e carica di elettricità. Densi nuvoloni neri coprono il cielo, donandogli il colore dell’asfalto e promettendo un acquazzone di quelli invadenti. Un vento leggero monta da nord, andando a disturbare il sonnacchioso riposo di una fila di piccioni sui cavi dell’alta tensione.
I muri della piccola stazione – quattro binari, di cui uno mai utilizzato, un bar e una biglietteria che resta aperta tipo dodici minuti alla settimana – sono stati imbiancati di fresco. Molto di fresco: qualche giorno fa, quando sono partito, erano ancora tutti pieni di scritte. Indiscutibili saggi di cultura popolare. Testimonianze storico-demoscopiche come “Mi sono congedato. Mario, scaglione 4/02, morite tutti”. Dietro le quinte della vita privata di onesti cittadini, riassunti, con veloci tratti di pennarello, in frasi del tipo “Luisa è una gran troia”. Annunci commerciali di dubbia attendibilità – “Se vuoi scopare chiama il numero…” – poesie di matrice scatologico-sessuale, professioni di fede nei confronti della propria squadra del cuore, graffiti testimonianti il modo in cui si è sottratta alla scuola un’assolata mattina della propria esistenza.
Fare sega a scuola, fatti una sega, fotte una sega. Tutto il mondo delle scritte delle stazioni delle cittadine d'Italia e forse anche del mondo ruota attorno all'autoerotismo. Datemi una pippa e vi solleverò l'universo.
Roba da passarci il tempo. Ora è invece tutte le pareti sono bianche. Come quelle di un ospedale, ma senza la puzza d’alcol. Come quelle di un asilo, ma senza le manate dei bambini. Come quelle di una casa nuova, solo che in una casa nuova i pavimenti piastrellati non sono così lisi e tempestati di cicatrici nere lasciate dai mozziconi di sigaretta.
Proprio vicino alle panchine, su una colonna, qualcuno ha già avuto il tempo, comunque, di violare il rinnovato candore acrilico con una bomboletta spray rossa. E di ribadire che sì, “Luisa è una gran troia”. Che gli avrà fatto mai Luisa a ‘sto tipo, mi chiedo.
Tiro su il colletto della felpa leggera che mi sono infilato sulla canotta e inizio a trascinarmi dietro la sacca. Esco dalla stazione e lo trovo esattamente dove immaginavo che fosse.
Elpi mi sta aspettando seduto sul cofano del suo cinquino, appostato vicino a un vecchio taxi perennemente a corto di clienti, immediatamente fuori alla stazione.
I capelli biondi, portati spettinati all’inglese, formano una frangia ordinata che arriva a lambirgli gli occhi. Elpi indossa un giubbino da barca sulla polo con il coccodrillo, pantaloni a coste e scarpe da tennis da 250mila lire. Il mento magro è munito di quella che potremmo definire solo l’ultima delle sue sperimentazioni in fatto di barbe et similia. Messe via le basette lunghe, che quando sono partito gli arrivavano a toccare la mascella, ora esibisce un pizzetto sottilissimo, di quelli che sembrano disegnati con la matita e che ti fanno perdere ogni mattina mezz’ora per tenerli in ordine.
Ma, attenzione, contrariamente a quel che potreste giustamente pensare in questo momento, Elpi non è un fighetto. Per nulla.
Lui e io ci siamo conosciuti al centro sociale Electra e abbiamo legato subito. Ha una libreria stracolma di titoli interessanti, una cultura generale mostruosa e idee politiche molto chiare. Idee che, peraltro, lo hanno portato a sviluppare una particolare linea di condotta. A ogni manifestazione, sit-in, protesta, Elpi è l’unico a presentarsi in giacca e cravatta, con giubbini di camoscio e scarpe di marca, con pantaloni di velluto, maglioncini di filo e pettinature da modello. Così è l’unico a non essere mai manganellato, strattonato, spinto, percosso, insultato, preso a calci e pugni e sputi da celere and police. Quando siamo stati, insieme a tutti gli altri ragazzi del centro, al G7 di Napoli, un assaggio di manganello lo abbiamo avuto tutti, compreso un fotografo free-lance di Livorno che si era aggregato al gruppo. Tutti tranne Elpi. Niente. E “scusi signore” e “si allontani da questa gentaglia, signore” e “venga, venga via”. Barcellona, uguale. Berlino… no, lì non è venuto ché aveva l’influenza.
Ma non dovete pensare che sia un vigliacco. Elpi si considera una sorta di agente segreto al servizio delle forze del bene e, al contempo, un simbolo vivente dell’ipocrisia che guida le azioni di quelle teste di cazzo quando caricano. “Picchia quelli sporchi, lascia stare gli altri: li addestrano così quei figli di puttana”, è solito ripetere ogni tre secondi, soprattutto a se stesso. Il lato positivo di questa delirante filosofia personale? Quando c’è Elpi al volante non devi temere di essere fermato a ogni singolo posto di blocco dai caramba.
Mai.
Non mi viene incontro. Resta con il culo sul cofano del cinquino, guardandomi con quel suo sorriso da cazzone – a metà tra Brad Pitt e Jim Carrey. Ma più Jim Carrey – dipinto in faccia.
“Gioventù, com’è andato il viaggio?”
“Un cazzo di inferno, lasciamo perdere…”
“Salta dentro, giovane, che stasera c’ho un programmino per festeggiare il tuo rientro”, mi fa con quell’entusiasmo da ragazzino che anima tutte le sue frasi.
Butto la sacca sul sedile posteriore del cinquino, salgo in macchina, affondo il volto sui palmi delle mani. “No, guarda, stasera no… Non ce la faccio proprio. Stò ‘na pezza”
“Ma quale pezza e pezza. Non fare il minchione. Ti dico che c’ho un programmino vuol dire che c’ho un bel programmino”
“Dai, non insistere. Proprio non… ma cos’è ‘sta puzza?”
“Quale puzza?”
Cerco e trovo nel posacenere il cadavere di un alberello giallo limone malato. “Ah, è st’Arbre Magique del cazzo! Ma che cavolo di…”
“Puzza? È Vanilla Special! Era in offerta e l'ho pagato solo duemila lire.”
“Pensa che culo…”
“Ma lo sai che sei proprio intrattabile? – Elpi inserisce le chiavi nel quadro e, fissando la strada, mette su un muso di rappresentanza – La prossima volta, cazzi che ti vengo a prendere!”
Inizio a ridere, poi, afferrando la sacca dal sedile posteriore, frugo al suo interno alla ricerca del sacchettino trasparente.
“Animo! Willy ti ha portato un regalino dalla capitale…”
“Mi-ti-co!! Ci fermiamo da qualche parte e me ne fai provare un po’”
“Ti ho detto che sono stanco morto”
Elpi scopre un ghigno a sessantotto denti, quindi, dimentico della strada per diversi, pericolosissimi secondi, gira il capo di novanta gradi verso di me: “E io ti ho detto che c’ho un programmino…”
Il vero nome di Elpi, per la cronaca, è Elpidio. Se incontrate uno che di nome fa Elpidio, non potete che immaginare che lo sventurato sia una delle tante vittime della barbara usanza di affibbiare a tuo figlio il nome di tuo padre ANCHE quando quest’ultimo è palesemente ridicolo e il povero ragazzo verrà condannato sin dal giorno zero a una vita di prese per il culo. Cosa non si fa per i soldi. Dunque Elpidio aveva ricevuto il proprio aberrante nome come acconto sull’eredità del nonno, giusto? Sbagliato. Perché suo nonno si chiama Luigi.
Il punto è che Elpi di cognome fa Bianchi, e il padre, per evitargli problemi di omonimia e renderlo "speciale", ha ben pensato di regalargli tale gioiello di originalità come nome di battesimo. Futuro d'inferno negli anni della scuola media in omaggio alla cassa. Elpi, come soprannome, non è che risolva molto il problema, ma lui ormai se n’è fatto una ragione. Ha imparato a ripetere tre volte il proprio nome di battesimo a impiegate oche di uffici pubblici e banche, e a sopportare le risatine di corredo.
Elpi ha ventisette anni, e nella vita non fa un cazzo. Ha deciso di abbandonare Ingegneria dopo un paio di giorni di lezione, pur lasciando che i genitori si sobbarcassero le tasse universitarie per altri due d’anni. Ora tira su qualche soldo lavorando – si fa per dire – nel negozio di elettrodomestici del padre. Il resto del tempo lo impiega incollato davanti un televisore, a sfondarsi di videogame, o al monitor blu del suo Mac, impegnato a buttare giù i suoi progetti di conquista del mondo. Il disco rigido del suo computer è tutto un susseguirsi di file con nomi piuttosto indicativi: “Per una società meno plutocratica, Ver. 2.1”, “Discorso alle coscienze”, “La sinistra giovanile oggi, vista da un giovane di sinistra”, and so on.
Ore 21,05
Il cinquino è abbandonato in una piazzola di sosta, circondata da alti pioppi che hanno sparso tutt’intorno tonnellate di polline. Sembra quasi di essere immersi in un mare di cotone idrofilo. Le nuvole si sono fatte ancora più nere e basse di prima. In fondo alla strada, tra i palazzi, si congiungono con l’asfalto. All’interno dell’auto, per nostalgia da primi anni 80, il fumo ha creato una densa cortina di ferro. Con le pupille dilatate e il bianco degli occhi solcato da sottili venuzze rosse, ci godiamo gli ultimi tiri in un silenzio di tomba, in pace col mondo. Elpi muove lentamente la testa avanti e indietro, a occhi chiusi. Il sorriso incorniciato dal pizzetto disegnato meriterebbe di esser immortalato e mostrato ai posteri, quale simbolo chiarissimo della dissolutezza dei giovani di fine secolo. O delle di facce di cazzo da competizione che ti regala il consumo di cannabis.
Saggio con la nuca la consistenza del poggia testa. Guardo fuori le nuvole di polline sollevate in un turbine bianco da una brezza fresca.
“Beh, dov’è che mi volevi portare stasera?”, chiedo con indifferenza.
“Hai visto che ti ho fatto cambiare idea?”, risponde lui, felice come una Pasqua.
“Ho detto ‘volevi’. Era solo così, per sapere…”
“Seee. Dillo che ti ho convinto ma non vuoi fare la figura di merda”
“Dove?”
“Ammettilo”
“Dove?”
“Prima ammetti che sei un cazzone pentito”
“Ok, ok. Dove?”
“Non mi ricordo di preciso. A casa di una che conosce Salvo. È una festa. Ci ha invitati lui”
“Salvo? È ancora vivo quel soggetto?”, chiedo, perplesso.
Elpi ha preso a passare in rassegna le tasche del suo giubbino. Ma si muove ancora al rallentatore. Come un bradipo immerso fino al collo nella melassa. “Soggetto un cazzo. Quello è pieno di figa”
“Ma chi, quello che a scuola parlava coi rutti?”
“Eh, a scuola parlava coi rutti e ora va in giro con le fighe… Aspetta, l’indirizzo me lo sono appuntato qui e… oh, merda!”. E solleva gli occhi al cielo.
“Cosa?”.
“L’indirizzo. L’avevo scritto su una Rizla”
“E…?”
“Indovina, genio. Ce lo siamo appena fumato!”.
[PARTE 1. Che ne dite, continua?]
Continua, continua che ci piace!
RispondiEliminacerto che continua!
RispondiEliminaAnche 20 anni fa scrivevi bene!
RispondiEliminaVai vai, che ci stuzzica!
Continua. Il tratto è rimasto praticamente uguale.
RispondiEliminaE...lpirla!!Ci piace anche a me!! Continua per piacere!!
RispondiEliminaDoc capiti a fagiolo come si suol dire,in questo periodo sto mettendo giù anche io una storia,parecchio incasinata che non so se ne verrò fuori ma tant'è.
RispondiEliminaComunque continua che devo sapere come prosegue
A me incuriosisce molto. Voto "continua".
RispondiEliminaMo ssò curioso... ;)
RispondiEliminaContinua!
RispondiEliminama davvero to lo dobbiamo dirtelo che vogliamo anche i seguiti?
RispondiEliminache mi pare ovvio che vogliamo...
E' così anni 90 che riesco a vedere le litografie sopra i sedili dell' intercity Torino-Lamezia Terme.
RispondiEliminaAncora, ancora!
vai doc continua,che io odio lasciare le storie a metà! :)
RispondiEliminaConcordo pienamente
EliminaLeggere tutto, con ogni tanto quel "E sto per morire" che torna alla mente come un tarlo, è decisamente interessante...
RispondiEliminaSi, voglio il seguito!!
Figo, stile più naif, ma interessante. Dai dai continua. Ma mi sento in obbligo di chiederti di dare una possibilità a Frankie :-)
RispondiEliminaInutile ripetere che il Doc sa scrivere...attendo il seguito... con piacere! ...."Anche Questo è Sud", come diceva uno di Crotone...
RispondiEliminaLa parte del treno è praticamente un film. Vai avanti!
RispondiEliminaVai Doc !
RispondiEliminaAspettiamo tutti con ansia il seguito.
Continua, continua.
RispondiEliminaMa quei caratteri strani (quadratini tratteggiati con dentro [L SEP]) li vedo solo io?
Su mac (Firefox e Chrome) i quadratini non li vedo. Ma è un vecchio .doc passato attraverso cinque o sei programmi di editing diversi, ai tempi, e approdato nell'html del blog tipo diciotto anni dopo: vai a sapere che gli dice la testa...
EliminaIo "sto per morire" l'avevo interpretato "per via del caldo del vagone" ma Rotolina mi fa venire dei dubbi!
RispondiEliminaPiccolo off-topic tecnico: a parte i caratteri strani, che vedo anch'io come Omoragno, però sottoforma di quadratini senza nulla dentro, volevo segnalare che (da diversi mesi invero) nella versione mobile del blog, i pulsanti per scorrere le pagine, i fondo alle pagine stesse, sono invisibili! (provato sia con Opera sia con Chrome)... se sai dove pigiare si riesce a cambiare pagina, però il bottone non si vede (o forse è dello stesso colore dello sfondo, boh)
P.s. W Elpi!
P.p.s. Ma la suoneria di Puttana Eva come fa?! :D
Per i quadratini vedi sopra.
EliminaPer la versione mobile... boh. Ma usi la versione web comunque, non quella "per cellulari", vero? (testo cliccabile "Visualizza la versione web" in fondo alla pagina).
Continua continua che siamo curiosi di leggere come va a finire
RispondiEliminaUso la versione per cellulari. La mette di default ed è molto più comoda sui cellulari (android nel mio caso).
RispondiEliminaAppunto poco sopra "visualizza versione web" in fondo alla pagina, a sx e dx ci sono i pulsanti per scorrere le pagine che dicevo... se li tocchi le pagine scorrono, solo che non si vedono...
Ah... non l'avevo detto prima, ma, ovviamente: continua!!!!
Ovvio che continua. Lo stile mi ricorda il primo Brizzi, ora la storia rischia di diventare "Rotta per casa di Dio". Avanti tutta, Doc.
RispondiElimina00;46, in TV cantano un rapper e una tizia mai sentiti, però io sto qui e mi son letto la prima parte di questa storia non so se conclusa.
RispondiEliminaMi piace un sacco questo inizio, ci conceda la continuazione doc!
Si vuol sapere il seguito che la curiosità è salita parecchio!!! :)
RispondiEliminaDirei di sì, continua, avevi già uno stile scorrevole anni fa, complimenti.
RispondiEliminaForse mi hai fatto tornare la voglia di finire un racconto che iniziai 6 o 7 anni fa, grazie.
Bell'inizio... ha un che di Brizzi, e seppure fossero già i primi anni 2000, i viaggi in intercity/carro bestiame li ho fatti pure io!
RispondiEliminaL'idea del tipo che si veste fighetto per non farsi manganellare è una magata.
Ora voglio vedere se vanno alla festa o che...
Mi aggrego al gruppo dei "continua!" ��
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