Frankie se ne va a Hollywood, parte 5
Sì, sei UN ATTIMO in ritardo con le due robe a puntate, è vero, ma c'è che oltre alle solite papille gustative interrotte, hai avuto da mettere in cantiere il PROGETTO X. Che è una cosa grossa, e torniamo a parlarne presto (promesso). Ma dicevamo: adesso Frankie, settimana prossima riparte anche Badass Bastards. Magari si riesce a rimetterli entrambi nella carreggiata della quattordicinalitè, magari no. Mo' vediamo. Engiòi.
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Da quando eravamo rimasti soli, io e Hanz, dopo la morte di nostro padre, le cose avevano subito quella che di lì a poco uno dei più giovani allievi di Victor, Rudolf Clausius, avrebbe definito un'accelerazione entropica. Andavano male. Molto male. Tanto per iniziare, il castello stava cadendo letteralmente a pezzi. Alcune finestre nei corridoi del secondo piano erano state sfondate dai rami degli alberi, che nessuno potava più da un sacco di tempo, e quando pioveva l’intero piano si trasformava in un piccolo stagno. Nel cortile le statue di pietra erano avvolte dall’edera, e la facciata presentava delle crepe preoccupanti. I vecchi laboratori erano ormai il regno incontrastato di ragni e polvere. Il problema era che un posto come il castello dei Frankenstein, esposto alle intemperie per buona parte dell’anno e mangiato dal sole in estate, richiedeva una manutenzione costante. Io facevo quel che mi riusciva possibile fare, ma per sostituire le finestre rotte dovevi comprarne di nuove. Un giardiniere per potare piante e alberi, se non avevi scale e cesoie per arrangiarti da te, lo dovevi pagare. E noi, per farla breve, eravamo rimasti senza un soldo. [...]
Di soldi, in realtà, Victor ne aveva lasciati parecchi, denaro messo da parte con le sue ultime invenzioni: il pelacipolle senza lacrime e il canarino meccanico da compagnia. Che, per quanto ne dicessero le solite malelingue giù in paese, funzionavano davvero. Anche se il gas sprigionato dal primo marchingegno per contrastare l'acido solfenico delle cipolle provocava in alcuni soggetti la comparsa di chiazze blu sul collo (ma se avevano la pelle troppo sensibile non era mica colpa di Victor. E che diamine), e il canarino meccanico, dopo un po’ che lo tenevi nella gabbietta, si lasciava prendere dalla claustrofobia e iniziava a sbattere la testolina contro le sbarre fino ad esplodere (andrà riconosciuto che solo un genio come mio padre avrebbe potuto creare un animaletto sintetico in grado di manifestare fobie tipicamente umane). Solo che questi soldi a un certo punto avevano preso il volo. O meglio, il piroscafo.
****
Dopo la morte di papà, mio fratello non aveva mai voluto cercarsi un lavoro. Diceva di non poter fare la vita di quei villici giù in paese, e che comunque il denaro lasciatoci da Victor gli sarebbe bastato per vivere da nababbo finché campava. Quanto a me, fortunatamente i miei sei litri d’acqua al giorno necessari a far girare la mia caldaia interna non costavano nulla. Che a me bastava il pozzo. Che ero fortunato, io.
Un giorno Hanz venne a dirmi però che aveva deciso di partire.
«Frankie», mi disse guardandomi dal basso, dietro quella frangia bionda che gli anni non gli avevano tolto. «Voglio andare in Transilvania. Andare a cercare mamma in quel castello sperduto dove abita. Ammesso che sia ancora viva».
«Tua madre?», gli chiesi io. Sorpreso più che altro di sentir parlare dopo tanti anni di nuovo di quella donna.
«Sì, lo so. Lo so, Frankie: mamma non si è mai comportata bene con noi o con papà. Se n’è andata in quel modo. Ma è l’unica parente che mi è rimasta. Beh… dopo te, ovvio. Ma, sai com’è. Intendo l’unica parente vera. Umana».
Vera. Umana.
Se quelle parole mi avevano colpito mi sforzai di non darlo a vedere, e gli chiesi come l’avrebbe mai trovata. Non aveva lasciato alcuna indicazione sulla sua nuova residenza, e la Transilvania era anche allora una regione capace di coprire, con le sue 16 contee, 103.652 chilometri quadrat…
«In qualche modo farò», tagliò corto lui. «Non preoccuparti: è mia madre, la troverò. E in fondo quell’uomo che ha sposato, quel conte, dovrebbe essere piuttosto noto laggiù. Vedrai che non sarà difficile».
Due giorni dopo lo accompagnai al cancello del castello, dopo aver montato due pesanti valigie piene di vestiti sul suo calesse. Era un giorno di marzo, e come al solito pioveva a dirotto.
«Allora vado, Fran…», mi disse Hanz, tenendosi una mano sopra gli occhi per ripararli dalla pioggia e urlando per farsi sentire. Ma un tuono aveva mozzato via le ultime parole della sua frase.
«Devo farlo ora, il tempo per me passa», proseguì fissandomi con uno sguardo strano. Tristezza? Invidia? Ma no, tristezza. «Tu sei esattamente come ti ho visto la prima volta. Uguale. Ma io non sono più un ragazzo e… meglio che vada. Ci vediamo presto, dai».
E presto doveva essere evidentemente un concetto piuttosto vago per Hanz, visto che fece ritorno al castello solo due anni dopo. Con un gran cappello in testa.Il servizio di intrattenimento di bordo passa a un vecchio brano di Phil Collins. Il ritornello dice: quante volte ti devo ripetere che mi dispiace?
«Frankie!» mi disse prendendo tra indice e medio della mano destra il sigaro, e sprizzava gioia da tutti i pori. Evidentemente era davvero contento di rivedermi. Mi venne incontro a braccia aperte.
«Hanz!», gli risposi. E anche se lo stupore che la programmazione delle mie valvole mi consente di avvertire è una sensazione tutto sommato limitata, mi sforzai di sembrare il più stupito e felice possibile di rivedere mio fratello. Che altrimenti magari ci restava male, vallo a sapere.
Siamo rimasti lì, abbracciati, per qualche secondo, senza saper bene cosa dire. Solo quando il sigaro che ancora reggeva in mano aveva preso a bruciare la mia pelle sintetica pensai che forse era il caso di staccarsi.
«Allora?», gli chiesi, prendendogli i bagagli, e sentendoli al peso stranamente mezzi vuoti. «Com’è questa Transilvania?».
E il sorriso per un attimo ad Hanz andò via. «Transilvania?», mi rispose. «E chi l’ha vista? Io sono stato in America».
Nei giorni successivi, Hanz mi spiegò che i collegamenti per la Transilvania erano un vero inferno. Che il percorso, anche in quel periodo dell’anno, sarebbe stato per buona parte impraticabile, e il viaggio in calesse attraverso le montagne lungo e impervio. Pozze, lupi, foreste, altri lupi. Mentre era lì alla stazione di posta che decideva il da farsi, però, aveva incontrato per caso alcuni suoi vecchi amici di scuola: Bernhard Gößling, Hartwig Schierbaum e Frank Sorgatz. Erano andati via da Darmstadt molti anni prima, e ora gestivano, avevano raccontato a Hanz, un grosso allevamento di bestiame. Avevano da qualche tempo iniziato un traffico di import/export con gli Stati Uniti d’America. Dapprima sulla costa Est, dove avevano messo su una sede di rappresentanza nella cittadina di Alphaville, in Virginia, poi sempre più verso Ovest. Seguivano, gli dissero, l’avanzare della frontiera americana a Occidente, che seguiva a sua volta di pari passo i progressi della ferrovia transcontinentale. Man mano che la strada ferrata conquistava nuove terre, i coloni le occupavano e qualcuno doveva vendere loro buoi e mucche per tirare avanti, in buona sostanza. Insomma, saluti di qua e da quanto tempo di là, i tre erano di nuovo in partenza, e di lì a qualche giorno si sarebbero imbarcati su un piroscafo, il Forever Young, pronto a salpare alla volta di New York. A sentire Hanz, avevano insistito così tanto per trascinarlo con loro, da fargli dimenticare completamente i suoi propositi originali. Solo una volta a bordo, solo dopo che la Forever Young aveva lasciato le coste germaniche per il suo lungo viaggio, Hans si sarebbe ricordato di Dora Rumenigge e del suo piano di ritrovare un contatto con le proprie origini. Ma a quel punto era davvero troppo tardi per tornare indietro. Che un piroscafo non lo fai tornare indietro così, giusto perché ti sei dimenticato di tua madre. E poi, lì dove stavano andando, gli assicuravano ci fosse sempre un sacco di sole. Mica come nello stato di Hessen.
****
I primi mesi in America non erano stati semplici per mio fratello. Adattarsi alla vita di frontiera, per lui che era sempre vissuto in un castello servito e riverito, che era incapace di comprendere il concetto stesso di esigenze basilari, si era rivelata una prova più dura del previsto. Ma una volta abituatosi alla polvere, alla durezza dei posti e dei suoi abitanti, tutto aveva preso a filare per il verso giusto. In quei giorni lì, subito dopo il suo ritorno, siamo stati per interi pomeriggi io e lui davanti al camino, ad ascoltare le meraviglie dei suoi racconti. Finché durarono, Hanz continuava a fumare quei sigari puzzolenti e a parlarmi dei suoi viaggi, su e giù lungo il confine della civiltà tracciato dalle rotaie. Delle praterie da percorrere liberi in groppa a un cavallo, che potevi acquistare per pochi dollari e diventava per settimane il tuo unico amico e compagno in quei posti. Degli incontri con gli indiani, gente temibile ma leale, che non gliela davi mica a bere con quella storia delle perline in cambio dei terreni. Nossignore. Per niente. Dei coloni, uomini che si spaccavano la schiena tutto il giorno inseguendo un proprio sogno, e che sarebbero andati pazzi secondo Hanz per il canarino meccanico e il turboaratro di Victor. Della vita vera che si respirava in villaggi tirati su da zero al mattino, e magari bruciati la sera dall’incendio appiccato da qualche bandito. E le partite a poker, e gli sceriffi tutti d’un pezzo che provavi soggezione solo a vederli, e i fagioli arrostiti mangiati al fuoco di bivacco, e le belle donne dell’Ovest, e i serpenti a sonagli, e le grandi bevute nei saloon e…
«Ma allora, se era una vita così meravigliosa, perché sei tornato?», gli chiesi alla fine a bruciapelo, con tutta l’ingenuità di questo mondo, dopo quattro giorni ininterrotti di racconti mirabolanti.
«Beh, essenzialmente…», mi rispose lui. E dall’espressione si vedeva che dire quanto stava per dire gli desse un minimo d’imbarazzo. «Essenzialmente perché ho finito tutti i nostri soldi. Non c’è rimasto più neanche un centesimo».
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Da quando eravamo rimasti soli, io e Hanz, dopo la morte di nostro padre, le cose avevano subito quella che di lì a poco uno dei più giovani allievi di Victor, Rudolf Clausius, avrebbe definito un'accelerazione entropica. Andavano male. Molto male. Tanto per iniziare, il castello stava cadendo letteralmente a pezzi. Alcune finestre nei corridoi del secondo piano erano state sfondate dai rami degli alberi, che nessuno potava più da un sacco di tempo, e quando pioveva l’intero piano si trasformava in un piccolo stagno. Nel cortile le statue di pietra erano avvolte dall’edera, e la facciata presentava delle crepe preoccupanti. I vecchi laboratori erano ormai il regno incontrastato di ragni e polvere. Il problema era che un posto come il castello dei Frankenstein, esposto alle intemperie per buona parte dell’anno e mangiato dal sole in estate, richiedeva una manutenzione costante. Io facevo quel che mi riusciva possibile fare, ma per sostituire le finestre rotte dovevi comprarne di nuove. Un giardiniere per potare piante e alberi, se non avevi scale e cesoie per arrangiarti da te, lo dovevi pagare. E noi, per farla breve, eravamo rimasti senza un soldo. [...]
Di soldi, in realtà, Victor ne aveva lasciati parecchi, denaro messo da parte con le sue ultime invenzioni: il pelacipolle senza lacrime e il canarino meccanico da compagnia. Che, per quanto ne dicessero le solite malelingue giù in paese, funzionavano davvero. Anche se il gas sprigionato dal primo marchingegno per contrastare l'acido solfenico delle cipolle provocava in alcuni soggetti la comparsa di chiazze blu sul collo (ma se avevano la pelle troppo sensibile non era mica colpa di Victor. E che diamine), e il canarino meccanico, dopo un po’ che lo tenevi nella gabbietta, si lasciava prendere dalla claustrofobia e iniziava a sbattere la testolina contro le sbarre fino ad esplodere (andrà riconosciuto che solo un genio come mio padre avrebbe potuto creare un animaletto sintetico in grado di manifestare fobie tipicamente umane). Solo che questi soldi a un certo punto avevano preso il volo. O meglio, il piroscafo.
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«Frankie», mi disse guardandomi dal basso, dietro quella frangia bionda che gli anni non gli avevano tolto. «Voglio andare in Transilvania. Andare a cercare mamma in quel castello sperduto dove abita. Ammesso che sia ancora viva».
«Tua madre?», gli chiesi io. Sorpreso più che altro di sentir parlare dopo tanti anni di nuovo di quella donna.
«Sì, lo so. Lo so, Frankie: mamma non si è mai comportata bene con noi o con papà. Se n’è andata in quel modo. Ma è l’unica parente che mi è rimasta. Beh… dopo te, ovvio. Ma, sai com’è. Intendo l’unica parente vera. Umana».
Vera. Umana.
Se quelle parole mi avevano colpito mi sforzai di non darlo a vedere, e gli chiesi come l’avrebbe mai trovata. Non aveva lasciato alcuna indicazione sulla sua nuova residenza, e la Transilvania era anche allora una regione capace di coprire, con le sue 16 contee, 103.652 chilometri quadrat…
«In qualche modo farò», tagliò corto lui. «Non preoccuparti: è mia madre, la troverò. E in fondo quell’uomo che ha sposato, quel conte, dovrebbe essere piuttosto noto laggiù. Vedrai che non sarà difficile».
Due giorni dopo lo accompagnai al cancello del castello, dopo aver montato due pesanti valigie piene di vestiti sul suo calesse. Era un giorno di marzo, e come al solito pioveva a dirotto.
«Allora vado, Fran…», mi disse Hanz, tenendosi una mano sopra gli occhi per ripararli dalla pioggia e urlando per farsi sentire. Ma un tuono aveva mozzato via le ultime parole della sua frase.
«Devo farlo ora, il tempo per me passa», proseguì fissandomi con uno sguardo strano. Tristezza? Invidia? Ma no, tristezza. «Tu sei esattamente come ti ho visto la prima volta. Uguale. Ma io non sono più un ragazzo e… meglio che vada. Ci vediamo presto, dai».
E presto doveva essere evidentemente un concetto piuttosto vago per Hanz, visto che fece ritorno al castello solo due anni dopo. Con un gran cappello in testa.Il servizio di intrattenimento di bordo passa a un vecchio brano di Phil Collins. Il ritornello dice: quante volte ti devo ripetere che mi dispiace?
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Stavo rimettendo a posto la libreria, rimandandone a memoria per la terza volta l’intero contenuto, quando sentii il grosso portone d’ingresso del castello sbattere. Scesi le scale dell’atrio e me lo ritrovai lì, con un sigaro gigantesco in bocca, vestito a quel modo. Indossava una giacca scamosciata con delle lunghe frange sotto le braccia, due strani stivaloni di pelle bianca con la punta, un cinturone con la fibbia di ferro più grande che avesse mai attraversato lo stato di Hessen. E in testa, beh, in testa portava questo bizzarro cappello a falde larghe, completamente nero, con un nastro di raso dello stesso colore tutt’intorno. Mai vista una roba del genere.«Frankie!» mi disse prendendo tra indice e medio della mano destra il sigaro, e sprizzava gioia da tutti i pori. Evidentemente era davvero contento di rivedermi. Mi venne incontro a braccia aperte.
«Hanz!», gli risposi. E anche se lo stupore che la programmazione delle mie valvole mi consente di avvertire è una sensazione tutto sommato limitata, mi sforzai di sembrare il più stupito e felice possibile di rivedere mio fratello. Che altrimenti magari ci restava male, vallo a sapere.
Siamo rimasti lì, abbracciati, per qualche secondo, senza saper bene cosa dire. Solo quando il sigaro che ancora reggeva in mano aveva preso a bruciare la mia pelle sintetica pensai che forse era il caso di staccarsi.
«Allora?», gli chiesi, prendendogli i bagagli, e sentendoli al peso stranamente mezzi vuoti. «Com’è questa Transilvania?».
E il sorriso per un attimo ad Hanz andò via. «Transilvania?», mi rispose. «E chi l’ha vista? Io sono stato in America».
Nei giorni successivi, Hanz mi spiegò che i collegamenti per la Transilvania erano un vero inferno. Che il percorso, anche in quel periodo dell’anno, sarebbe stato per buona parte impraticabile, e il viaggio in calesse attraverso le montagne lungo e impervio. Pozze, lupi, foreste, altri lupi. Mentre era lì alla stazione di posta che decideva il da farsi, però, aveva incontrato per caso alcuni suoi vecchi amici di scuola: Bernhard Gößling, Hartwig Schierbaum e Frank Sorgatz. Erano andati via da Darmstadt molti anni prima, e ora gestivano, avevano raccontato a Hanz, un grosso allevamento di bestiame. Avevano da qualche tempo iniziato un traffico di import/export con gli Stati Uniti d’America. Dapprima sulla costa Est, dove avevano messo su una sede di rappresentanza nella cittadina di Alphaville, in Virginia, poi sempre più verso Ovest. Seguivano, gli dissero, l’avanzare della frontiera americana a Occidente, che seguiva a sua volta di pari passo i progressi della ferrovia transcontinentale. Man mano che la strada ferrata conquistava nuove terre, i coloni le occupavano e qualcuno doveva vendere loro buoi e mucche per tirare avanti, in buona sostanza. Insomma, saluti di qua e da quanto tempo di là, i tre erano di nuovo in partenza, e di lì a qualche giorno si sarebbero imbarcati su un piroscafo, il Forever Young, pronto a salpare alla volta di New York. A sentire Hanz, avevano insistito così tanto per trascinarlo con loro, da fargli dimenticare completamente i suoi propositi originali. Solo una volta a bordo, solo dopo che la Forever Young aveva lasciato le coste germaniche per il suo lungo viaggio, Hans si sarebbe ricordato di Dora Rumenigge e del suo piano di ritrovare un contatto con le proprie origini. Ma a quel punto era davvero troppo tardi per tornare indietro. Che un piroscafo non lo fai tornare indietro così, giusto perché ti sei dimenticato di tua madre. E poi, lì dove stavano andando, gli assicuravano ci fosse sempre un sacco di sole. Mica come nello stato di Hessen.
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«Ma allora, se era una vita così meravigliosa, perché sei tornato?», gli chiesi alla fine a bruciapelo, con tutta l’ingenuità di questo mondo, dopo quattro giorni ininterrotti di racconti mirabolanti.
«Beh, essenzialmente…», mi rispose lui. E dall’espressione si vedeva che dire quanto stava per dire gli desse un minimo d’imbarazzo. «Essenzialmente perché ho finito tutti i nostri soldi. Non c’è rimasto più neanche un centesimo».
[CONTINUA PROBABILMENTE TRA DUE SETTIMANE]
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaSegnalo un refuso: "ma se avevano la pelle troppo sensibile non era mica di Victor"
RispondiEliminadovrebbe essere "ma se avevano la pelle troppo sensibile non era mica COLPA di Victor
denghiu, rob
RispondiEliminaFrankie Frankie!
RispondiEliminaDoc non è che il PROGETTO X consiste nel candidarsi alle prossime primarie del centro sinistra? No perchè io fra te e Renzi scelgo te senza dubbio!
Paolo:
RispondiEliminaCazzu iu! Chiuuupppilu pi tutti! :)
Bella Doc!
RispondiEliminaInaspettatamente la storia di Frankie mi ha preso molto di più di quella del game designer (che è comunque figa, eh!)
Continua così! :-)
La Forever Young diretta alla cittadina di Alphaville! Chapeau!
RispondiElimina...........ho collegato ora. Grazie!!!
Elimina;)
RispondiEliminaValeva la pena rompere le balle... :D
RispondiEliminaCome già detto mi piacciono tantissimo entrambi e spero che il progetto romanzi a puntate vada aventi, coi suoi tempi, ma vada avanti :)
RispondiEliminaMi mancava!
RispondiEliminaApprezza il fatto che non sia venuto a mantecarti i cabbasisi in questo periodo, ma iniziavo a preoccuparmi :)
Sempre grandissimo, eh.
E poi una cosa devo dirtela: questa dei capitoli con la colonna sonora è un'idea fighissima.
Quoto Nervo!
RispondiEliminaLa colonna sonora da tutto un altro senso alle parole che leggi.
Frankie e Badass sono diventati i miei appuntamenti preferiti con l'Antro...non immagini quanto aiutino durante le lotte quotidiane con i mezzi pubblici napoletani !!!
Mi piace l'originalità della rilettura del personaggio di Frankestein, nonchè la cura per i dettagli. L'unico difetto è che ogni puntata è sempre, troppo, breve.
RispondiEliminaBello Doc, si legge d'un fiato.
RispondiEliminaVero che alla prossima puntata c'è questo link e a Frankie parte un papagno che spedisce a nanna Hanz dalle falde larghe?? No, eh? Peccato...
oh cielo mi era sfuggito Frank. Ragazzi il lavoro serve ma rischi di tralasciare le cose importanti, tipo leggere le puntate dei romanzi a puntate che ti piacciono di più... Merita veramente, grazie Doc!
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