Alla ricerca della soluzione (il cubo e Cicciolina)
Ieri sera, con Paola, si è visto Alla ricerca della felicità. Un film che illustra alla perfezione quanto sia importante, per l'ammerrigano medio, l'american dream. E anche se sei un poveraccio che si arrabbatta per tirare fino alla fine del mese, ma tua moglie ti lascia e ti sfrattano e derubano due volte, nulla ti impedisce di inseguire il tuo sogno: diventare un broker cocainomane con la Ferrari. E fa nulla che per riuscirci, invece di trovarti un lavoro in pizzeria per pagare un tetto per tuo figlio, lo fai dormire nei ricoveri dei barboni o nei cessi della metropolitana e gli fai pure perdere l'unico giocattolo che ha (un pupazzino Mego di Capitan America)...
Insomma, il film non solo fa pena, ma mi ha messo pure addosso un discreto nervosismo. Così mi sono concentrato sull'unica cosa piacevole di tutta questa grande fiera del buonismo finto e dell'ipocrisia: il cubo di Rubik. Ora, il film è ambientato nell'81, e quindi mostra metà della popolazione di San Francisco intenta a perdere il sonno dietro alle 43.252.003.274.489.856.000 possibili combinazioni del cubo. Quando quella follia è scoppiata anche da noi, più o meno un anno dopo, io ero in seconda elementare. Per i proto-geek videoludicoinformatici dell'epoca era una vera e propria bomba, anche se nessuno sapeva bene come si chiamasse questo cacchio di cubo multicolore: Rubik, Rubick, Kubick, Kubrick, Cubizz. Non c'era Wikipedia a spiegarti di questo professore di architettura ungherese, che inventa una roba che lo fa diventare miliardario. Di ungherese, a quei tempi, da noi si filavano solo Cicciolina. Fatto sta che allora le cose non erano semplici come adesso. Così, quando una zia mi sfidò, in cambio di una DIECIMILALIRE, a risolverlo in una settimana, io non avevo le guide video online che ti mostrano come farlo in meno di 100 mosse. O i consigli per finirlo in 12 secondi. Manco per niente.
Ma quei soldi mi servivano: sarebbero finiti dritti nel fondo accumulo per un gioco nuovo del 2600.
Due giorni dopo, riporto a un'esterrefatta sorella di mia madre il dannato rompicapo ungherese risolto. "Come diavolo hai fatto?" mi chiede lei, già convinta di potersi vantare con le amiche del genio del nipote.
Io sorrido, fingendo una modestia che allora non possiedo, intasco le DIECIMILALIRE, e infilo la porta. Quello che non dico a mia zia è che un paio di giorni bastano e avanzano. A scollare le faccette colorate del cubo con l'acqua calda, asciugarle col phon e incollarle al loro posto con l'attaccatutto.
A quei tempi, per barare non si poteva usare Internet. I cheat erano, necessariamente, ancora analogici.
Insomma, il film non solo fa pena, ma mi ha messo pure addosso un discreto nervosismo. Così mi sono concentrato sull'unica cosa piacevole di tutta questa grande fiera del buonismo finto e dell'ipocrisia: il cubo di Rubik. Ora, il film è ambientato nell'81, e quindi mostra metà della popolazione di San Francisco intenta a perdere il sonno dietro alle 43.252.003.274.489.856.000 possibili combinazioni del cubo. Quando quella follia è scoppiata anche da noi, più o meno un anno dopo, io ero in seconda elementare. Per i proto-geek videoludicoinformatici dell'epoca era una vera e propria bomba, anche se nessuno sapeva bene come si chiamasse questo cacchio di cubo multicolore: Rubik, Rubick, Kubick, Kubrick, Cubizz. Non c'era Wikipedia a spiegarti di questo professore di architettura ungherese, che inventa una roba che lo fa diventare miliardario. Di ungherese, a quei tempi, da noi si filavano solo Cicciolina. Fatto sta che allora le cose non erano semplici come adesso. Così, quando una zia mi sfidò, in cambio di una DIECIMILALIRE, a risolverlo in una settimana, io non avevo le guide video online che ti mostrano come farlo in meno di 100 mosse. O i consigli per finirlo in 12 secondi. Manco per niente.
Ma quei soldi mi servivano: sarebbero finiti dritti nel fondo accumulo per un gioco nuovo del 2600.
Due giorni dopo, riporto a un'esterrefatta sorella di mia madre il dannato rompicapo ungherese risolto. "Come diavolo hai fatto?" mi chiede lei, già convinta di potersi vantare con le amiche del genio del nipote.
Io sorrido, fingendo una modestia che allora non possiedo, intasco le DIECIMILALIRE, e infilo la porta. Quello che non dico a mia zia è che un paio di giorni bastano e avanzano. A scollare le faccette colorate del cubo con l'acqua calda, asciugarle col phon e incollarle al loro posto con l'attaccatutto.
A quei tempi, per barare non si poteva usare Internet. I cheat erano, necessariamente, ancora analogici.
Cicciolina comunque non se la filavano. Se la ficcavano ;p
RispondiEliminaSì, avevo scritto "non se la inculava nessuno". Ma la frase suonava per una qualche ragione estremamente fuori posto...
RispondiEliminaHo fatto la stessa cosa spaccando direttamente i cubotti e rincollandoli insieme.
RispondiEliminaGiuro che pareva una buona idea, per vincere una birra.