The uncanny job

L’appuntamento etilico del Dave (d’ora in poi, per il profondo affetto che nutro nei confronti degli acronimi, A.e.D.) è un rito al quale mi sottopongo, ogni 13 febbraio, da ormai una decina di anni buoni. Il Dave lo conosco praticamente da sempre, ma negli ultimi tempi non abbiamo modo di vederci spesso. Così all’A.e.D. capita che mi imbatta in persone che non conosco. Il che diventa piacevole, quando hai modo di parlare con gente nuova cui l’alcol ha sciolto lingua e freni inibitori. Il che diventa parecchio spiacevole, quando si inizia a parlare del tuo lavoro. All’A.e.D. di quest’anno c’era anche un noto professionista cittadino. Trecentosessantacinque giorni fa non c’era, quindi ho immaginato trattarsi di una nuova conoscenza del Dave. “Che lavoro fai?”- mi fa, spiazzante, mentre cerco di far capire a un bicchiere di primitivo chi è che tiene le briglie dei miei neuroni. La prendo inevitabilmente larga, finendo per sembrare Aldo, Giovanni e Giacomo (sì, tutti e tre assieme) in Tre uomini e una gamba. “Entertainment giovanile”. “Editoria dell’intrattenimento”. “Sì, insomma, videogiochi”. Non è che mi vergogni del mio lavoro, eh. È che in genere non sopporto il dover spiegare cosa faccio a chi non è in grado di capire una professione qualora il suo nome contenga più di due parole. E in serate come l’A.e.D., istituzionalmente votate al cazzeggio, lo sopporto ancor meno. Il noto professionista soppesa le mie parole. Non capisce. Non capisce proprio. Leggo lo stupore in quegli occhi giallastri e sorseggio il primitivo, sperando che non mi rivolga LA DOMANDA. Dave decifra la situazione e si inserisce al volo nella pantomima. “Sai – gli fa – il mio amico è un cittadino del mondo. Nell’ultimo anno è stato in Giappone e a Los Angeles e a...”. Ma le sue parole portano la discussione ad accelerare verso il punto di crisi. Il noto professionista ha ormai gli occhi sbarrati. “E... e ti pagano per questo?!?”, mi chiede con la voce resa acuta dall’incredulità. LA DOMANDA. Sempre quella. Sempre la stessa. Alla quale potrei regalare la solita risposta, certo, menzionando il culo che mi faccio ogni giorno e chiosando con il fatto che io, almeno, le tasse le pago. Ma stavolta non ne ho le forze. Mando giù quel poco di rosso che resta nel bicchiere, do una pacca sulla spalla al Dave e mi involo verso la porta: ci si vede l’anno prossimo. Forse.

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