Ehi tu, delusa: 199X (parte 2)

Seconda parte del raccontino scritto imberbemente quasi vent'anni fa e qui riproposto così com'era, che ti fa - si diceva - tenerezza e imbarazzo, tenerazzo. La prima parte, chi se la fosse persa, la trova qui. Arriveranno Willy ed Elpi a questa benedetta festa? Mah.

Ore 21,10
 
“Messaggio gratuito. L’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile, potrebbe avere il telefono spento, potrebbe esser deceduto, potrebbe pesargli il culo a rispondere o è un cazzone che rifila i bidoni agli amici”
“Hai provato sull’altro numero?”
“Stessa storia”, risponde Elpi, ripiegando con il mento il cellulare a forma di cozza.


Il cinquino è appostato, tra una selva di motorini e city car, a ridosso della piazzetta, punto di ritrovo del ragazzame locale e in quanto tale landa di disperazione, da sempre invisa a nosotros per l’alto tasso di fighetteria dilagante. Salvo pensavamo – speravamo, ma con scarsa convinzione, devo essere sincero – di trovarlo qui, ma del suo cranio magro sormontato da quei ricci disordinati, delle sue polo a righe orizzontali da rugbista e della sua espressione da tenebroso dei poveri non c’è traccia.


Dev’essere già andato alla festa. Sicuro. [...]


Elpi, fiero del suo sorriso al gusto di cannabis, si sporge dal finestrino indicando una tipa seduta, in compagnia di un trittico di amiche sgallettate, su una panchina al centro della piazzetta. 


“Gioventù, di' un po', ma quella non è Giulia?”
“Chi?”
“Ma come chi, quella lì… la rossa”


Non mi volto nemmeno. Giulia l’ho già vista, nell'esatto istante in cui siamo arrivati. Con la sua camicetta bianca. Con il frontino nero anni 60. Con quegli zigomi e quegli occhi lì, che farebbero balbettare Dio.


Elpi non molla l'osso: “Ma non frequentava l’Electra?”
“See”
“Non la si vede più da, tipo, un paio di mesi e… aspetta n’attimo, ma non è...?”
“See”
“...QUELLA Giulia di cui mi facevi ‘na capa tanta, Giulia di qua, Giulia di là?”
“See”
“Hai rotto il cazzo con i belati. Che è successo? No, aspetta: frega niente. Quello che voglio sapere è perché ora sta con quelle fighette. Dio santo, io dico che dovremmo andare lì a salvarla...” 

“Cambiamo argomento, GRAZIE”, dico, con la leggerezza di uno a cui dei ballerini di flamenco stanno pestando a ritmo le palle.

Non conosco nessuna Giulia. 
Giulia non esiste. Non è mai esistita.

“Vabbé, ho capito – taglia finalmente corto – Fammi provare a richiamare quel cazzone…”
“È più cazzone lui o te che ti sei rollato l’indirizzo?”

Ore 22,05

 
Un pub a duecento metri dalla piazzetta.
Il cinquino è rimasto lì, a far da guardiano, dall’alto della sua esperienza su strada, a quella selva di giovani motorini indisciplinati e automobiline che si portano senza patente. Noi abbiamo invece ripiegato verso il Koala.

Bel nome di merda per un locale, vero? E non avete visto com'è fatto dentro.


Trattasi di uno di quei tristissimi esperimenti di locali costruiti per i giovani con tante G, però affidandosi a un architetto che gli ultimi giovani in vita sua li aveva visti cinquant'anni prima. Nemmeno il più sfigato soggettone del pianeta avrebbe trovato cool quel posto rivestito in perline di noce, con le bandierine dei college e i poster di Marilyn appesi alle pareti. Con le mazze e i guantoni da baseball, la foto in bianco e nero di Di Maggio, i tavoli sormontati dalle targhe dei cinquanta Stati USA e dai busti in plastica dei capi indiani. Con le cameriere (tutte cesse), santo cielo, sui pattini e con le camicette country. 


Un incubo partorito dopo una peperonata e una maratona di Happy Days.


Ma a me, a Elpi e a qualche altro povero disperato dell'Electra tutto sommato non dispiace. Lasciatemi spiegare: è letteralmente tappezzato con l'immaginario vintage degli Stati Uniti del Succhiamelo, ok, ma chi se ne fotte. La birra è buona e non c’è quasi mai nessuno; se vai per startene per i cazzi tuoi, va benissimo.



Prendiamo due pinte di rossa al bancone, ma, il tempo di portare alle labbra i boccali e il telefonino di Elpi si mette a urlare la sigla dei Simpson.
“Chi ci chiama da Springfield?”, gli chiedo, curvando il collo per cercare di sbirciare il nome sul display.
“Sì, pronto? Ah, cazzone!!!”
 

È Salvo.

Vorrebbe reggere un tono da “che mi rompete le palle a fare?”, ma la sua voce trilla piuttosto un “MINCHIA, gente: non potete proprio immaginare!”. Elpi inarca un sopracciglio come The Rock e attiva il vivavoce.


“Cazzarola, Elpi: nemmeno ti immagini! – eccolo là – Sono a casa di quella tizia che mi hai presentato tu, quella dell’Electra con la coda di cavallo e gli zigomi marcati…”
“Ma chi, Arianna?”
“Esatto, Arianna. ‘Na bomba. Mi devi credere, fratè: ‘na bomba. ‘Mo siamo nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, è andata a prendere qualcosa da bere dal frigo”.


Elpi e io prendiamo a darci di gomito, cercando di trattenere (male) le risate, e anche il proprietario del Koala – former hippie con le foto di una vacanza a Cuba pre-caduta del Muro dietro alla cassa – accostatosi al cellulare poggiato sul bancone, sta ascoltando la telefonata, ridendosela sotto ai baffoni.


“Stai con quel tuo amico pirla, vero? Willy? Il Lenny Kravitz del Tufello? Ma com’è che non siete ancora alla festa?”
“È proprio per questo che ti chiamavamo, coglione. Diciamo che ho perso l’indirizzo…”
“O diciamo che sei una capodiminchia e ti sei fumato la Rizla su cui l’avevi segnato. Manco capace di ricordare una strada e un numero civico, WOW”
“Ma vaffanculo un po'”
“Tranquillo, sono buono: via Kennedy. Il numero civico mo’ non lo ricordo nemmeno io, ma arrivati lì basta seguire la musica. La festa è di una ragazza, dite che vi mando io. Tutto chiaro, cocomeri?”
“Chiarissimo. Oh, e attento ad Arianna: è pericolosa!”
“Pericolosa? Che vuoi…?”


Ma Elpi, esattamente una frazione di secondo prima di scoppiare a ridere come uno di quei tizi in felpa Best Company tra il pubblico di Drive In, ha chiuso la cozza.
“Non ci posso credere, Willy: Arianna! CAZZO!
“Arianna la Piovra! E magari Salvo è convinto anche di aver fatto un bel colpo, il playboy. Quel troione se lo mangia a colazione!”

La Piovra è famosa, anzi, no: famigerata all'Electra. Vera mangiatrice di uomini, pochi le sono sopravvissuti per raccontarlo. Arianna non ti fa vivere una bella serata, Arianna ti divora, come una mantide.


“Alla tua!”, brindo sollevando il boccale.
“Alla sorella che non hai! E a Salvo!”.

Il “tin” dei due boccali riecheggia tra le statue di plastica di Geronimo e le targhe del Minnesota e dell’Idaho. Sopra di noi, su un piccolo televisore continuano a viaggiare videoclip. Sorseggio la birra e conto il sesto video di fila in cui qualche tizia di colore sbatte le chiappe sulla telecamera.


Ore 22,35


Il cinquino schizza deciso per le vie della città. Padroneggia l’asfalto, riempie gli incroci e le curve con una sinfonia di cigolii assortiti. Sembra quasi che sia in procinto di perdere da un momento all’altro la targa, un vetro, tutte e quattro le ruote.

Aggredisce le curve, tira su la polvere nei rettilinei, arranca minaccioso sugli strappi in salita, per poi riguadagnare smalto e leggerezza nelle discese.
Stiamo già a bestia. Il cannone prima e il boccalone di rossa poi ci hanno resi euforici quanto le ragazzine ai concerti dei Take That.

L’autoradio del cinquino gracchia l’immortale “Rock the Casbah” dei Clash, “Swap Meet” dei primissimi Nirvana, “Asphalt World” dei Suede. La compilation su cassettina mi piace, anche perché la cassettina è mia. Segue l’ultimo successo degli ScarSmax, l’irriverente “Burn the black witch, kill the white bitch”, incisa poco prima dell’abbandono da parte del loro carismatico leader, D.P. Al Zamora.   


“Kill the bitch, junkie’s shit!” canticchio, ciondolando la testa.
“Ma che è ‘sta merda? Come cazzo fai a mischiare i Clash con quei coglioni degli ScarSmax?”, mi chiede con un’espressione disgustata Elpi, che sotto l’effetto combinato di fumo e alcol ha messo da parte il suo usuale stile di guida.
Anziché restare aggrappato al volante come un pilota da rally, con gli occhi a venti centimetri dal parabrezza e un conto perennemente in sospeso con la terza – che, per una qualche strana ragione, riesce a grattare SEMPRE, qualunque sia la macchina guidata e la pressione esercitata dal suo piede sinistro sulla frizione – tiene ora abbandonato placidamente il palmo della destra sul pomello del cambio, lasciando spenzolare l’altro braccio fuori dal finestrino.
 

“A me piacciono. Anzi, piacevano visto che si sono sciolti”
“Ecco, questa sì che è una buona notizia”
“Ma piantala. Parla quello che ha a casa il primo disco di Jovanotti. ‘Gimme five!’. Lo sapessero su all’Electra, le sai le prese per il culo finché campi!”
“Ero un ragazzino, dai!
  

Borbottando, il cinquino svolta per via Milliput e inforca il lungo viale alberato che conduce al quartiere universitario, una fila di pioppi allineati come enormi sentinelle del diritto allo studio. Le sue ruote lisce danno polvere alle coppiette sedute al chiaro di luna sulle panchine, a scocciati signori di mezza età alle prese con la passeggiatina serale dei cani delle loro mogli, a imperturbabili maniaci della corsetta serale con i pantaloncini attillati sul culo e le cuffiette nelle orecchie.

Ma un rombo di tuono squarcia il placido silenzio serale, e una serie di fulmini, che illuminano a giorno il cielo su una collina poco distante, strombazzano l’arrivo del temporale.

I primi, grossi, goccioloni iniziano ad abbattersi sul parabrezza del cinquino e, nell’arco di poco meno di mezzo minuto, viene giù il pediluvio universale.
Noi due, sempre euforici, guardiamo le coppiette schizzare via dalle panchine e inforcare i motorini dalle selle già inzuppatissime, gli accompagnatori di cani trascinati via dai loro animali al galoppo, i maratoneti cercare di ostentare, con risultati modesti, una certa nonchalance nel proseguire la loro corsa sotto l’acqua.

Ma i nostri ghigni durano poco.

Più o meno a metà del lungo viale che deve portarci a Via Kennedy, alla festa dell’amica senza nome di Salvo avviluppato dai tentacoli della Piovra, il cinquino si spegne come l’entusiasmo dei supporter di una squadra che ha appena preso il gol del pareggio durante gli ultimi secondi del recupero.

Con un fuorigioco di sei metri.

Ore 22,50


“Milleecinquecento lire. Ah, e due gettoni da sala giochi”
“Io non ho un cazzo”
“Ma come non hai un cazzo?! Vieni da Roma e non hai un soldo in tasca?”
“Avevo diecimila lire. C’ho pagato le due birre, ciccio. Te lo sei scordato?”
“Oh, Madonna!” sbuffa Elpi.

Una decina di secondi di nervoso silenzio, poi io dico:
“Eddai, non fare lo stronzo. Arriviamo a ‘sta cazzo di festa e dopo ci facciamo accompagnare da Salvo all’automatico. E ci facciamo prestare pure dieci sacchi per la benzina. Preciso!”
“Ma non posso lasciare qui il cinquino! La zona mi sembra troppo scusagna. Se lo fottono garantito, altro che preciso!”
“Capirai il Ferrari! Non te lo tocca nessuno il catorcio, tranquillo. Piuttosto, aprimi il cofano: c’infratto la mia sacca, che contiene l’unica cosa di valore qui…”


È riluttante, ma alla fine lo fa. Anche perché non è che abbiamo tutte queste alternative. Abbandoniamo il cavallo di ferro e ci incamminiamo a piedi verso la festa, sotto il simpatico acquazzone gelido. Lassù qualcuno ci odia. 


Ricambiamo.

Ore 23,05

Stiamo camminando già da un po’ e la pioggia non accenna a calare d’intensità. Elpi è un paio di metri avanti e si regge una mano sulla fronte per evitare che le gocce gli finiscano negli occhi. Lo seguo con aria rilassata. Elpi mi ha appena messo a parte di una sua teoria sui miei capelli:
“Hai dei capelli impermeabili, cazzarola. Grazie che non ti dà fastidio la pioggia. Dovremmo brevettarli, sai i soldi…”


Risalendo come due salmoni metropolitani il fiume d’acqua fredda che scorre lungo il viale, trascinandosi dietro carte dei gelati e lattine e allagandoci le scarpe. Passiamo davanti a un vecchio furgone da rapitori.
Il viale alberato termina in un ampio spiazzo, al centro del quale ci sono una fontanella, quattro o cinque panchine e, tutti i pomeriggi, decine di bambini ansiosi di sbucciarsi gomiti e ginocchia in modi creativi. Su un lato della piazzetta, dopo i bidoni multietnici della differenziata, inizia una salita e con essa, tra due file parallele di auto parcheggiate in modo diligente che lasciano pochissimo spazio al transito degli autobus comunali, via Kennedy.

Ha smesso di piovere da qualche minuto e un venticello fresco spazza la zona, insinuandosi tra i palazzi ordinati e puliti, dall’architettura moderna e ricchi di vetrate e ascensori a vista, che punteggiano il quartiere. Case sorte tutte nei primi anni 80, quando quella che era stata sino ad allora terra agricola priva di valore, regno incontrastato di pecore e qualche mucca pezzata, è diventata l'eldorado dei palazzinari. Qui abitano praticamente solo studenti in affitto – sei persone in tre stanzette, trecentomila al mese a cranio, condominio e bollette esclusi – e famiglie del ceto medio. Un quartiere tranquillo, silenzioso, pulito. Uno di quelli in cui non verrei a vivere manco morto.

Attacchiamo con passi lenti la salita, musica nell'aria zero.

Ma dopo qualche minuto di silenzio, rotto dall’abbaiare di un cane in lontanza e dall'allarme di un’auto, sentiamo finalmente delle note provenire dall’alto. Il balcone di un grande appartamento, all’ultimo piano di una palazzina rivestita di mattonelle bianche e blu, pulsa dei ritmi inequivocabili di una festa: gioventù sorridente con bicchieri in mano si affaccia dalla balaustra in cerca di refrigerio, musica a palla esplode dalle finestre, voci allegre, qualche urlo.

Bingo.

Il portone è spalancato – così ci risparmiamo la rottura di coglioni dover citofonare a qualcuno a caso per farci aprire – e un accogliente ascensore dalla luce azzurrina ci sbarca al sesto piano, davanti a un portoncino blindato nero su cui regna un’etichetta ottonata. Sopra c'è scritto “Avv. Cav. Paolo Parcheri”.

Ci guardiamo in faccia senza dire nulla, poi Elpi solleva le spalle e suona il campanello. Quando quest’ultimo, anziché gracchiare come tutti i campanelli di questo mondo, si produce in una versione agghiacciante di Per Elisa da pianolina del Mulino Bianco, poggio la fronte alla parete in bucciato bianco del corridoio e iniziò a picchiarla lentamente contro il muro…


Ore 23,22

Ad aprirci la porta viene una ragazza alta e magra, dai lunghi capelli scuri sulle spalle. Il vestitino nero, allacciato al collo e che lascia scoperte le braccia e le gambe da metà coscia in giù, è solo un po’ più scuro della sua pelle. Sul gomito porta una vistosa fasciatura che lascia indovinare una più o meno rovinosa caduta da un motorino. È molto bella, la carnagione e il taglio degli occhi, neri come tutto il resto, le donano un fascino quasi esotico, e sul volto ha un sorriso scaldacuore quando ci apre il portoncino.

La sua espressione non cambia quando si trova davanti quei due sconosciuti tutti inzuppati, o se lo fa si tratta di un cambiamento tanto repentino che non abbiamo modo di accorgercene.

“Ehh… Ciao, siamo amici di Salvo!”, esordisce Elpi, aggiustandosi la frangia sulla fronte per far vedere meglio la notevole faccia da culo che ha messo su.
“Salvo… certo! Prego, prego: entrate!”

La ragazza ci stringe la mano, quindi ci fa strada lungo un breve corridoio poco illuminato, tra pareti tappezzate di grandi quadri a olio, facendoci entrare in un enorme salone in cui è in corso il vivo della festa. E un’atmosfera fumosa, profumata e vagamente rave quella che ci accoglie, ancora gocciolanti.


La sala, illuminata da faretti bassi e lampade giapponesi sul pavimento, è piena di persone che ballano. Sul suo parquet si muove una fauna umana piuttosto eterogenea: universitari, giovani impiegati, fancazzisti che vanno ormai per i trenta. "From Disco to Disco" gira sul piatto del DJ, un tizio con l'aria allucinata e una maglietta con il logo Technics. Le scarpe da tennis di Elpi cigolano sul parquet, lasciandosi dietro piccole pozze d’acqua. Nella baraonda sinestetica, nessuno se ne accorge.

Poco dopo, “Firestarter” dei Prodigy fa tremare le pareti e la porta a vetro del terrazzo, sul quale si aggira, tra le piante e le sedie a dondolo, un’altra ventina di persone.

Dell’appiovrato Salvo neanche l’ombra.

Elpi si guarda attorno perplesso. Forse non è stata una buona idea venire qui. Mi sfilo la felpa, usandola a mo’ di salvietta per asciugarmi le braccia bagnate, quindi la getto su una poltroncina e getto me stesso nella ressa, scivolando come un crotalo nel cuore pulsante della festa. Oh, a me “Firestarter” piace un casino…

Ore 23,50

La padrona di casa, quella con la carnagione sexy, e una tipa biondina, con le tette enormi strizzate in una magliettina bianca di due taglie più piccola e i jeans sdruciti, mi osservano appoggiate a una parete. Si dicono qualcosa.

Sorridono. Ricambio.
Ciao Pantera, ciao Susanna-tutta-panna.

Mi fissano le braccia, la prima cosa che notano tutte: non sono i tatuaggi tribali, che le ricoprono dalle clavicole ai polsi (due anni che me li porto dietro, un anno che non ne posso più). È quello che c'è sotto. Il corpo, in un passato prossimo magrolino, l’ho scolpito con la boxe.

Solo che non sono un pugile.

Per niente. Sono uno zero, non riesco a impensierire nemmeno il più scarso degli altri allievi, giù in palestra. Mi infilo il caschetto, salgo sul ring e le prendo. Ne prendo tante. Sinistri, destri, ganci, diretti, al corpo, montanti. Fino a quando l’allenatore non mi manda a fanculo e mi invita a cambiare sport. Ma a me non interessa. Non cerco la competizione. Voglio solo tenermi allenato.

È che quando ho visto Toro scatenato mi è rimasto impresso. Il Jack La Motta/De Niro, in quelle sequenze senza audio e al rallentatore, mi ha marchiato a fuoco il cervello. Così, anche se le prendo da tutti, quando mi alleno spengo il sonoro, calco il cappuccio della tuta sulla testa, e mi sfogo contro il sacco.

Almeno quello non mi mena.

Vado giù di pugni fino a quando le nocche, sotto le fasciature, non iniziano a farmi male e le spalle a pesare come macigni. Contro: le prese per il culo e i cazzotti in faccia, che nel caso ve lo stiate chiedendo, fanno male anche con guantoni e caschetto. Provate, se non mi credete. Pro: l’allenamento mi ha modellato il fisico. Le braccia non sono ancora troppo robuste, ma muscoli e nervi hanno conferito loro quantomeno una certa presenza. Una tonicità da atleta. Bonus: addome piatto con una parvenza di addominali, chiappe di marmo. Mettici i tatuaggi, gli anelli e queste altre stronzate da giovane alternativo e il risultato è stato il passaggio ufficiale dallo stadio "ogni tanto limono qualcuna, se mi va bene" a quello "porcocazzo, alle donne piaccio".

Per conservarlo, continuerei a prendere tutti i pugni in faccia del mondo, giuro.

Non so esattamente cosa succede nei minuti seguenti, mi sono distratto. Ma poco dopo la padrona di casa, la tipa carina e scura di pelle, mi parla piano nell’orecchio, facendo scorrere la punta delle dita di una mano sui disegni che mi coprono le braccia. Inizia a dirmi cose strane sui tatuaggi, mi chiede se ne ho altri.


L’ascolto per un po’, finché mi accorgo che quello scoppiato che mi ha portato qui... è incredibile, lo sta facendo di nuovo.

Sul fondo della sala, le spalle appiccicate a un quadro di un pittore famoso, Elpi solleva la birra per salutarmi, poi lo vedo cercare un posto dove poggiare la bottiglia.

Ne abbiamo parlato tante volte: è inutile.

Quando sei a una festa e ti trovi nella spiacevole situazione di dover poggiare il bicchiere (o una bottiglia, come ora. Non vi distraete, è la stessa cosa) è inutile cercare un posto sicuro dove potrai riconoscerlo quando ti torna la sete. Inevitabilmente lo troverai sepolto sotto decine di suoi simili. Perché se tu cerchi un posto dove poter lasciare il tuo bicchiere, agli altri interessa solo sapere che quello è un posto dove è permesso poggiare il proprio quando non sanno dove metterlo.

Elpi non ha ancora capito la lezione. Butta giù un altro sorso e poggia, sollevandosi sulle punte dei piedi, la bottiglia verde su una mensola altissima. Poi si guarda attorno. Credici, Elpi. Credici.

Un tipo in giacca e cravatta, con capelli rasati sulle tempie e lunghi, ingelatinati e divisi da una riga in cima al cranio, seduto sul bracciolo di una poltrona, agita le braccia mentre parla a due ragazze della barca da dodici metri di suo padre, del viaggio in Croazia che ha in programma per la prossima vacanza, dei soldi investiti in banca. Alle due non frega una fava di tutte quelle stronzate: glielo leggi in faccia, lo capisci da come cercano, guardandosi l’un l’altra e ridacchiando, di far capire a quel povero ebete che quella cronaca di vita agiata – vera o posticcia che sia – proprio non suscita il loro interesse.

La padrona di casa sposta la mano sul mio fianco, sotto la canotta umida, e mi accarezza le costole e gli addominali.

“Ma come sei tonico – mi dice con un filo di voce – Lo sai che mi ricordi Lenny Kravitz?”

Lo so, ma scusa un attimo, sto guardando quello che combina quell’imbracchiato del mio amico, che ha appena deciso di correre in soccorso delle due damigelle, di sottrarle dalle grinfie del drago testimonial dell'ente del turismo croato. Si avvicina lisciandosi la frangia e chiede alla più carina delle due qualcosa. Ma quella lo guarda tutta scocciata, ride di nuovo con l’amica, poi gli risponde qualcos'altro. E dall’espressione di lui capisci che tipo di risposta sia stata.
Elpi, gli va riconosciuto, incassa il colpo con stile: sorride, si allontana – mentre l’ebete riprende l’elenco delle sue fortune da dove lo aveva lasciato – e torna alla sua birra.


O, quantomeno, cerca di farlo…


Ore 23,58

Lo trovo con lo sguardo mesto, gli occhi fissi su una fila di bottigliette tutte uguali, tutte mezze piene nella stessa, identica misura.

“Non vuoi proprio fartelo entrare nella zucca, eh?”, gli dico.
Solleva il medio senza staccare lo sguardo dalla mensola.
“Lascia perdere, te ne vado a prendere un’altra…”

Due soldatini di vetro verde nuovi in mano, usciamo sul terrazzo a prendere un po’ d’ossigeno. Ha ricominciato a piovere, così tutti sono ripiegati all’interno. Seguiamo il percorso a L del terrazzo, ciabattando sull’acqua che ricopre le mattonelle rosse. In un angolo, su un dondolo fradicio d’acqua, due ragazze si baciano con passione, fottendosene della pioggia e del resto del pianeta, grosso modo.

“Interessante – mi fa Elpi, facendo tintinnare la sua bottiglia contro la mia – Allora, come va con la mulatta? Cotta?”
“Non è mulatta. Solo strafatta di lettini abbronzanti, credo. Comunque sì”
“E che ci fai allora qui fuori a parlare con me?”
“Ecco un'altra cosa che devo ripeterti all'infinito, minchione. Non bisogna avere fretta. Ora mi verrà a cercare lei”
“See, vabbè. È arrivato il Casanova di 'sto cazzo. Secondo me se non torni subito dentro ti lasci scivolare tra le dita un bel pezzo di…”
“Scommettiamo?”
“Andata”
Ma non fa a tempo a finire la frase che vediamo la finta mulatta incerottata venirci incontro. Si muove flessuosa come una pantera, camminando sulle punte dei sandali per non bagnarsi i piedini. Le cosce sono magre e scattanti, il corpo, nella penombra del terrazzo, sembra ancora più sodo sotto quel vestitino nero. Sento l’orgoglio venir su. E non solo quello.

“Ah, sei qui, Lenny! Ma che fate qua fuori? Venite dentro, ché piove”. E mi afferra per un braccio. E mi infila la mano nella tasca posteriore dei pantaloni. E si stringe a me. Ed Elpi puppa, uno a zero.

Ore 00,07


Brindiamo al giorno nuovo con un altro bicchierino di vodka liscia. Sarà il quarto o quinto di fila, ho perso il conto.
“Forse non è il caso – grido per scavalcare i decibel del tormentone pop in sottofondo  – ho già bevuto abbastanza e non reggo benissimo l'al…”
Ma Sheila – così scopro chiamarsi la finta mulatta – insiste.

Ci ha presentato una sua amica, brunetta, non troppo vistosa ma caruccia, se non fosse per il culo troppo basso – Marianna, 25 primavere, laureanda in lettere – e l'ha mandata a parlare con Elpi per liberarsi di lui.
Mi piacciono le donne possessive. Mi piacciono le donne con spirito d’iniziativa. Oh, fanculo: con un corpo così, mi piacciono le donne di qualunque tipo.

Marianna inizia ad ammorbare Elpi di parole. Gli impregna il cervello di metafore. Dà sfoggio di una dialettica da comizio. Cazzo se si vede che è laureanda in lettere.

Prendo il bicchierino numero X e lo tiro giù d’un fiato. Il tasso alcolemico del mio sangue cresce, la testa gira e, al suo interno, sento esplodere un Big Bang in miniatura. Le metafore colte di questa Marianna qui che continua a parlare mi scorrono veloci da un orecchio all’altro, senza venire intercettate dai pochi etti di materia grigia che occupano la distanza tra i due punti.
Ma Sheila è lì, mi regala quel certo sguardo che… E mi sento forte (non è vero) e mi sento carico (sì, però…) e ora, fossi sul ring, spaccherei chiunque e… 


Dove sarà il bagno? 

Sussurro a Sheila in un orecchio che torno subito. Per farmi sentire senza urlare, appoggio le labbra direttamente al suo lobo e la sento rabbrividire.
Good vibrations. Dice che mi aspetta.

Molto, ma molto bene. Aspettami qui, bella. Aspettami esattamente qui.

Barcollo verso il bagno. Sono il re del mondo (sono lievemente sfatto).
Raggiungo la porta, subito fuori dal salone, e faccio per girare la maniglia, quando la porta viene aperta dall’interno. Dal bagno viene fuori il tipo con la riga al centro, quello che stava intortando le due ragazze. Mr. Croazia ha il naso rossissimo, le pupille sbragate più che dilatate, e si passa in continuazione il dorso della mano destra sotto le narici. Non ci vuole Baretta per capire che ha pippato l'impossibile.

Mi afferra per le spalle e mi grida in faccia: "VADO AL MASSIMO! VADO A GONFIE VELE! A GONFIE VELE!". Quello che ti pare, coso, ma mollami o ti sbocco addosso, c'è il rischio.


Entro, mi chiudo a chiave, e faccio appena a tempo ad alzare la tavoletta prima di affidare alla tazza quel poco che mi girava all’interno della pancia.

Muoio e torno a nascere in meno di quattro secondi.

Mi tiro su e butto la faccia sotto l’acqua fredda del lavandino. Strizzo da un tubetto un po’ di dentifricio pasta del capitano dal sapore orrendo, me lo passo sui denti con un dito, mando giù il tutto. L’odore di menta piperita mi esce dalle narici.

Mi guardo nello specchio tutto decorato: sono carico, pronto, praticamente un toro. El toro loco. Così carico che non sento più nemmeno la musica.
Esco e… scopro che la musica non la sentivo più perché è stata spenta.

La Marianna laureanda in lettere piange disperata. Il volto, sotto le mani strette sugli occhi, è rosso dramma, e lacrimoni da un litro l’uno spiccano il balzo dalle sue guance alla volta del pavimento. Sheila la pantera l’abbraccia e cerca di consolarla, lanciando al contempo occhiate al vetriolo in direzione di Elpi. E non è la sola. Tutti, all’interno della sala, giuro, TUTTI, lo fissano come se fosse il peggior pezzo di merda del pianeta Terra.


Ora che sono uscito guardano anche me allo stesso modo: hello, sono il suo miglior amico.

Ore 00,15

La tensione, nella sala col parquet a terra e i quadri dei pittori famosi alle pareti, con i faretti bassi e la fauna eterogenea di studenti, impiegati e bella gente, non si è affatto smorzata. Anzi. Tutti continuano a fissarci in un silenzio rotto solo dai singhiozzi della Marianna laureanda in lettere.

Mi muovo piano, attento a non spostare troppo l’aria ostile.

Allungo un braccio, artiglio la spalla di Elpi e trascino una delle sue orecchie a portata di sussurro: “Si può sapere cosa cazzo è successo?”, gli chiedo.
Mi restituisce un’occhiata nervosa, le sopracciglie ridotte a due parentesi di imbarazzo. Poi torna a contemplare il pavimento.
Gli altri continuano a fissarci.

“Forse è meglio se ora andiamo…” fa poi il mio amico con un filo di voce.
“Credo che sia meglio”, risponde la non più tanto flessuosa Sheila. Il suo tono è caldo quanto una lastra di marmo. Quanto una goccia di pioggia che ti si infila tra nuca e colletto in febbraio. Quanto una nuotata in mutande nelle acque del Don. Quel sorriso raggiante di prima non popola più la sua bocca ben disegnata. Le braccia, conserte sul petto a comunicare ESTREMO disappunto, non accarezzeranno più questi muscoli da peso medio.

Addio mambo orizzontale, addio toro loco.

Senza dire una parola, muoviamo i tacchi guadagnando l’uscita. Nel silenzio generale, le scarpe da 250mila lire del Giuda traditore cigolano sinistramente sul parquet.

Aspetto che la porta d’ingresso venga aperta e, prontamente e senza dire una sola parola, richiusa alle nostre spalle da Sheila.

Aspetto che l’ascensore si fermi al nostro piano.

Entro e aspetto che le porte si chiudano, che il mio indice prema il tasto con la T, che il parallelepipedo di metallo inizi la lenta discesa verso il terreno.

Aspetto. Poi sbotto:
“Mi dici CHE CAZZO hai fatto in quei due minuti che ti ho lasciato solo, puttana Eva?”, gli urlo sbattendo il palmo di una mano contro la parete in metallo. L’ascensore vibra e traballa.

“Io… è che…”, borbotta lui.
“Che…?”
“Quando sei andato in bagno, quella tipa, Marianna, mi ha chiesto con chi fossimo venuti alla festa. Sì, insomma, che non ci aveva mai visto e…”
“E?”
“E io le ho risposto che eravamo amici di Salvo”
“Questo ancora non spiega perché siamo stati sbattuti fuori”
 “Adesso ci arrivo. Quando ho fatto il nome di Salvo, a lei sono brillati gli occhi. Mi ha chiesto se sapevamo che fine avesse fatto, visto che anche lei lo stava aspettando. Io non ho colto subito. Le ho detto che stava fresca ad aspettare. Che quello stava di sicuro ancora avviluppato tra i tentacoli della Piovra. A fare le cose zozze, le porcate fino all'alba. L’ho detto così, per ridere. Lei, invece, è scoppiata a piangere”
“Quella Marianna sta con Salvo…”, deduco con quel paio di neuroni ancora non stesi dalla coltre di nebbia alcolica che mi riempie la testa.
“Ma io non lo potevo sapere… di questa Marianna, Salvo non me ne aveva mai parlato! Scusami se ti ho mandato a puttane la serata”
“Lascia perdere”


Le porte dell’ascensore si aprono. Abbiamo collezionato una bella figura di merda e siamo ancora appiedati.
“Scusami davvero, Willy. Mi dispiace”
“Ho detto lascia perdere”
 

Potrebbe andare peggio, penso, potrebbe ricominciare a piovere.
E viene giù un tuono che fa impazzire tutti gli allarmi del quartiere, e riprende a piovere a dirotto.



[FINE PARTE 2. Continua]
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Commenti

  1. I want more!

    (Stavolta niente caratteri strani, fyi)

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  2. Quando tiri una balla e ci prendi...purtroppo!

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  3. What a twist! (cit.) bello bello continuiamo con questo racconto tardo-adolescenziale!

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  4. Quanto mi mancavano queste cose. Ma questa finisce, vero? VERO?

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    1. Finisce, finisce.
      È già tutto pronto (da 18 anni, tipo).

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  5. A me piace e ne vorrei ancora, se possibile.
    Tra l'altro a me é capitato di fare una figura di melma praticamente identica a quella di Elpi.

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  6. Che figata! Aspetto il resto della storia con trepidazione!

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  7. riguardo alla boxe...in pratica sono io ai corsi di mma:
    -stesso tasso di pericolosità per gli avversari
    -stesse motivazioni riguardo al fisico
    -stessi risultati con le ragazze!
    no dai l'ultima è una balla..:D
    vabbè la ragazza ce l ho già,quindi poco male :)

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  8. La piovra, salvo, il Corvo, la pasta del capitano, il Koala. Spettacolo Doc, spettacolo

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