Il sabato sera a Raccoon City? Un mortorio.

L'hai scritto qualche anno fa, per thefirstplace.it. Poi, forse (ma non ci giureresti), ne hai postato il link su queste coordinate. Ma siccome immagini che il link originale sia morto come la carriera di Ranieri, siccome hai ripescato il testo un paio di giorni fa per infilarlo (a sproposito) in un thread su un forum, e siccome è sabato mattina e, oltre ai tuoi ormai consueti appuntamenti con la dentista, non c'hai una mazza da fare, eccolo pure qua. Engiòi, che tu intanto te ne vai a mangiarti un Cucciolone.

LA GUARDIA
Ho freddo, ho paura.
Sapevo che venire a stare quassù si sarebbe rivelato, presto o tardi, un errore.
Sono nato giù in centro, a Raccoon City, a due passi dalla stazione di polizia.
Qui sui monti Arklay mi sono trasferito solo l’anno scorso. A vederla da lontano, questa vecchia villa non ispirava niente di buono. Quando, più giovane, mi spingevo fin qui con i miei amici in cerca di avventure, non ho mai voluto avvicinarmi alla costruzione. Poi gli uomini della Umbrella mi hanno offerto un posto, mi hanno dato vitto e alloggio, e… beh, non mi trovavo decisamente nelle condizioni di poter rifiutare un’offerta di questo tipo.
Una volta qui, ho scoperto che la magione è veramente enorme. Certo, a me è stato permesso di entrare solo in poche aree, ma le voci e i rumori nel sottosuolo davano l’idea di un complesso enorme, laggiù. C’erano decine e decine di persone che andavano avanti e indietro dai livelli inferiori. E poi strane gabbie, e persone in camice, e uomini con occhiali scuri e abiti eleganti.
Da principio tutto sembrava andare per il meglio: il mio lavoro era semplice, molto semplice. Certo, sorvegliare il lato esterno di una vecchia casa coloniale, quando sai che le cose più interessanti avvengono al suo interno, non è il massimo della vita e a volte ti annoi da morire, ma spesso non ero da solo durante i turni di guardia. E in compagnia di un collega, le fredde notti di veglia, avvolti dall’umidità della foresta Raccoon, passano più in fretta.
Poi, all’incirca una decina di giorni fa, è iniziato tutto.
Una sirena è risuonata a lungo sotto terra, seguita da urla strazianti, di agonia.
Quindi il silenzio.
Che fosse successo qualcosa di terrificante, che un incubo orrendo avesse preso piede qui, trai monti che sovrastano la vecchia Raccoon City, io e il mio compagno l’abbiamo capito presto.
Abbiamo iniziato a cambiare. A mutare.
Sento il dolore straziarmi la carne, e nell’immagine agonizzante del mio simile vedo riflessa la trasformazione che sta interessando anche il mio corpo.
Convulsioni, dolore. Ho la mente annebbiata, ho freddo, ho paura. Ho paura.

Un altro giorno. Più il tempo passa, più sento la mia lucidità abbandonarmi. La mente annebbiata da una rabbia antica, gli occhi appannati dalla follia.
Sento la pelle tendersi, lacerarsi sotto la pressione dei muscoli sottostanti. Il sangue mi cola copioso dalla bocca.
Guardo il mio compagno, e assieme urliamo al cielo buio la nostra disperazione.
Poi un rumore, dall’interno della casa, richiama la nostra attenzione.
Cerco di mettere a fuoco i pensieri, di allontanare la rabbia, ma quando il mio collega si getta contro la finestra, mandandola in frantumi, serro gli occhi e salto dentro anch’io.
Atterro in un corridoio lungo e illuminato in modo sinistro. A terra un tappeto consumato dagli anni, sulle pareti una vecchia carta da parati ingiallita, addossata a un muro una fila di cassettiere.
Il “rumore” è una donna che cammina verso di noi.
È alta, con i capelli corti a caschetto coperti da un basco blu. Indossa una camicia celeste, con spalline imbottite blu, guanti tagliati sulle dita, pantaloni e anfibi militari. Stretta nel pugno destro una pistola, il palmo sinistro tenuto aperto sotto il calcio di metallo nero.
La fisso perplesso. Il mio compagno si getta su di lei, e la donna fa fuoco. Una, due volte. Vedo il corpo del mio collega accasciarsi in un angolo in una pozza di sangue.
La massa di carne collassare su se stessa, priva di vita.
Resto immobile. Su una targhetta, sull’uniforme della donna, leggo “Jill Valenti…”
Il proiettile mi buca il collo.
Cado riverso su un lato. Sento la vita abbandonarmi e non capisco. Avevo tenuto a freno la rabbia…
Agito tutte e quattro le zampe in preda a un rantolo, e affido a un guaito il mio ultimo respiro. Che fine da cani…

Commenti

  1. Ce ne sono diverse, di perle nascoste, da queste parti.

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  2. Già!

    Doc, a quando una rubrica coi ripescaggi dei post vecchi caduti nel dimenticatoio? ;-)

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