Frankie se ne va a Hollywood, parte 4
Prima di tutto, una comunicazione di servizio per i ventordicimila antristi che ti hanno chiesto del raduno a Lucca Comics: ne parliamo domani mattina, appena l'allenatore dello squadrone giallonero dirama le convocazioni. Intanto potete ufficialmente iniziare il riscaldamento a bordo campo. Sì, una settimana prima. Detto ciò, quarta parte del romanzo a puntate Frankie se ne va a Hollywood: appurato che la Shelley ha scritto un sacco di cavolate, com'è nato davvero Frankie?
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Secondo il romanzo della signora Shelley, io sarei una specie di golem. Un essere cui Victor - descritto, vai a sapere perché, come uno svizzero nato a Napoli - ha dato vita partendo da materia inanimata, dopo aver studiato a lungo la decomposizione dei cadaveri. Un miracolo della chimica. Non si poteva mica pretendere che una saggista londinese comprendesse la tecnologia avanzata del dottor Frankenstein, siamo d'accordo, e la sua versione era sempre meglio di quanto si sarebbero poi inventati in quel posto chiamato Hollywood... ma cosa le costava chiedere?
Nel libro si legge che, inorridito dalla mia vista, Victor mi avrebbe rifiutato subito dopo la mia creazione. Il che mi avrebbe spinto in seguito a cercare vendetta uccidendo tutta una serie di persone vicine al dottore: il fratello, un amico, la moglie. Nonostante le mie capacità di analisi del livello d'interesse medio generato da un testo di narrativa possano essere discostanti dalla… sì, insomma, per quanto non sia molto pratico del genere, arrivo a capire che scrivere di una creatura meccanica la cui programmazione non conosce la violenza, impegnata soprattutto a sollevare macchinari pesanti e mandare a memoria libri interi in pochi minuti non fosse propriamente un intreccio esaltante per un romanzo. Che per stupire suo marito e i suoi amici, Polidori e Byron, in quella vacanza a Villa Diodati, Mary aveva barato, lavorando di fantasia su una storia vera.
Anche John Polidori, del resto, con Il Vampiro aveva fatto lo stesso.
Ma dipingermi come un assassino rancoroso? Fantasia per fantasia, non andava bene un impavido esploratore delle foreste africane? Non bastava un valente pioniere dell’Ovest? Un forzuto circense/professore di lettere, capace di stupire i bambini con la sua forza e con una cultura spaventosa? E quella storia dell'altro mostro, una donna, creato e poi distrutto da mio padre? Victor, l'inventore dello scacciamosche gentile?
Mentre bevo i sei litri d'acqua che mi ha portato la hostess, il servizio di intrattenimento di bordo passa a un altro brano. Secondo il depliant che ne illustra i contenuti, si tratta del remix di Could you be loved.
Could you be loved and be loved, canta Damian Marley, il figlio più giovane di Robert Nesta Marley, detto Bob (Nine Mile, 6 febbraio 1945 – Miami, 11 maggio 1981), cantautore, chitarrista e attivista giamaicano. Di figli Victor diceva sempre a tutti di averne due, e di quello più grande e grosso non è mai stato né inorridito né pentito.
Potresti essere amato e amato.
Era mio padre e mi voleva un sacco di bene, se proprio vogliamo dirlo.
****
Trovare i materiali usati per costruirmi, mi raccontò un giorno, era stato dispendioso ma non difficile. Il cuoio cerato con cui ha realizzato la mia pelle artificiale l’aveva preso a buon mercato dal signor Marton, il conciatore di pelli del villaggio. Forse troppo a buon mercato, visto che non aveva previsto questo colorito grigio-verdognolo che avrei assunto praticamente subito a causa di quella scarica elettrica. Così va la vita. Le valvole in cui immagazzino i miei ricordi, la caldaia a vapore interna che trasforma l’acqua in tutta l’energia di cui ho bisogno per muovermi, lo scheletro in alluminio e titanio: tutto costruito da lui con pochi mezzi. Il parafulmine invece… beh, metter su quello era stato davvero un bel grattacapo. Il lavoro di Victor si trovò presto a un punto morto a causa di un piccolissimo errore di calcolo da lui commesso. Per mettere in moto la mia caldaia perpetua, e in buona sostanza per farmi aprire gli occhi e muovere le gambe per la prima volta, serviva infatti una scarica elettrica da 1,21 gigowatt. Una quantità di energia semplicemente inconcepibile per il 1816. L’unica per Victor, a quel punto, era affidarsi al cielo. Letteralmente.
Decise di assemblare un enorme parafulmine: un palo di ferro appuntito in cima e lungo nove metri, da piazzare in cima al castello. Al di là della spesa per mettere le mani su tutto il metallo necessario (addio candelabri di Dora), il montaggio in sé si era rivelato piuttosto problematico, visto che il vento che sferzava senza sosta il castello continuava a buttar giù quella stramba pertica. Una, due, tre volte. E in una di quelle occasioni le raffiche erano state talmente violente da spedire il parafulmine, come un gigantesco giavellotto, a conficcarsi nella casa di un contadino che abitava a qualche centinaio di metri dal castello.
Il contadino non l’aveva presa particolarmente bene.
Alla fine, mio padre decise di bucare il tetto del suo laboratorio principale, in modo da far spuntare fuori l’antenna solo per metà: l’altra metà partiva dal centro della sala ed era collegata direttamente a un tavolo di metallo, su cui ero adagiato io. A quel punto bastava solo aspettare la scintilla: un bel temporale che si portasse dietro un fulmine da 1,21 gigowatt, pronto a esser catturato dal più grosso e brutto parafulmine che lo stato di Hessen avesse mai visto. Solo che era la fine di giugno, e a Darmstadt c’era una sola cosa più insopportabile dei lunghi inverni gelidi e pieni di neve. Le lunghe estati torride e senza una goccia di pioggia. Victor, come avrebbero testimoniato i suoi diari, dopo una decina di giorni spesi ad aspettare inutilmente un temporale, nel suo laboratorio arroventato dal sole, aveva deciso di rimandare il discorso all’autunno. Aveva chiuso la sala ed era tornato a occuparsi al piano di sotto di altri suoi lavori minori rimasti incompiuti. Come un qualche macchinario a vapore che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto sostituire il lavoro umano nel lavaggio dei panni (stando alle pagine del diario di quel periodo, gli esperimenti precedenti non avevano portato infatti i frutti sperati: oltre a lavarli, proseguivano, a seconda del prototipo, con il dar fuoco ai vestiti, tingerli completamente di nero, ridurli in coriandoli, mangiarli).
Poi, semplicemente, come tutte le cose semplici eppure meravigliose della vita, come la vita stessa, accadde.
Il mio primo ricordo, la prima sensazione registrata dalle mie valvole, è stato un rumore pazzesco. Tuono: poi avrei imparato che ciò che aveva scosso l’intera sala, mandato in frantumi provette, finestre e vetrine, si chiamava tuono.
Mi guardai le braccia, le gambe, il vestito di stoffa grigio scura con cui ero stato intabarrato, ed ero tutto avvolto da scariche elettriche. E così il tavolo in metallo, la parte del parafulmine che toccava terra, le lastre di metallo che ricoprivano buona parte del pavimento stesso. L’intero laboratorio era in pratica elettrizzato, e in un angolo alcune pile di appunti e una cassapanca di legno bruciavano, riempiendo il posto di un denso fumo nero. Osservai lentamente tutto questo, e ogni cosa per me era nuova. Mi alzai, e gli enormi zoccoli di legno che Victor mi aveva costruito con le sue mani iniziarono a rimbombare sul pavimento. Non l’avevo mai fatto prima, ma camminare non era poi tutta questa gran cosa. Il lavoro duro toccava in quel momento alle mie valvole primarie e secondarie, che stavano registrando in fretta tutto, spinte a mille giri al minuto dalla caldaia a vapore. Presi a guardare il parafulmine, ancora avviluppato dalle scariche, e mi chiesi chi fossi, da dove venissi, dove stessi andando.
E soprattutto cosa cavolo fosse successo.
Era successo, ma l’avrei scoperto solo molto dopo, che il signor Gheorge aveva deciso proprio quella sera di iniziare il raccolto dei suoi lamponi. Ora, si dà il caso che B. Ohy Gheorge era un vecchio rompiscatole odiato da tutti giù in paese. Talmente odiato, che quando uno dei parafulmini instabili sperimentati da mio padre si era staccato per il vento da un torrione del castello e gli era precipitato dritto in casa, trafiggendo tetto e tavolo da pranzo, buona parte degli abitanti di Darmstadt avevano accolto la notizia con gioia, vedendoci quasi una punizione divina per quell’anziano contadino dai modi francamente insopportabili.
Perché avessero in odio il signor Gheorge non è ben chiaro, ma pare che alla base di tutto ci fossero proprio i suoi lamponi. I migliori lamponi di Darmstadt. Della contea. Dello stato di Hessen. Forse dell’intera confederazione germanica.
Il problema era che, ormai da anni, l’arzillo vecchietto non permetteva a nessuno di mangiarli: non li vendeva, non li regalava, non lasciava avvicinare anima viva ai suoi preziosi arbusti. Ché, sembra continuasse a ripetere, i suoi lamponi l’avevano tenuto in forma fino a quel momento, e non poteva mica sprecarli per rendere felice tutta quella massa di invidiosi paesani, sempre lì a parlar male di lui dietro le spalle. La notte in cui quel palo lungo dodici metri era piovuto dal cielo, beh, quella era stata l’ultima goccia. Il vecchio Gheorge si convinse che i villici di Darmstadt erano arrivati al punto di ordire un attentato alla sua vita pur di impadronirsi del suo raccolto. Il ricordo della scena seguente, di Bartholomeus Ohy Gheorge che arriva nella piazza del paese urlando come un pazzo, penso sia rimasto vivo nella mente degli abitanti del villaggio per decenni.
«Pensavate di farmela, eh?», gridava agitando i pugni a mulinello nell’aria, mentre le prime teste iniziavano a far capolino assonnate dalle finestre. «Credevate di togliermi di mezzo, in combutta con quel dottore mezzo pazzo che abita nel castello, vero? Ero seduto proprio a quel tavolo, quando quella cosa lo ha sfondato in due. Ma i riflessi, i riflessi incredibili che mi regalano i miei adorati lamponi, mi hanno salvato. Rassegnatevi: non metterete mai le vostre luride mani sui miei frutti. Mai! Mi sentite? Mai! Avete capito? Mai! È chiaro? Mai!…».
Pare sia tornato a casa solo la mattina dopo, portato di peso dai gendarmi. Anche loro innervositi dalla notte passata in bianco per le urla del contadino. La piazzata non aveva peraltro aiutato molto la popolarità del signor Gheorge. Ora, grazie ai miei studi so bene che le credenze popolari legate a malocchio, sfortuna, cattiva sorte non hanno alcun fondamento scientifico, eppure…
Non è facile spiegarlo, ma proprio mentre Victor installava nel laboratorio il suo ultimo parafulmine, gli abitanti di Darmstadt iniziarono a desiderare che il campo del vecchio Gheorge prendesse spontaneamente fuoco. Finché, come raccontano le cronache del paese, un violentissimo temporale scosse all’improvviso una notte di fine giugno, fino a quel momento serena come tutte quelle che l’avevano preceduta e l’avrebbero seguita. Il cielo limpido della contea venne squarciato da un fulmine enorme, che con ogni probabilità si sarebbe abbattuto proprio sulla casa dell'odiato contadino. Ma la scarica venne intercettata dal parafulmine installato da mio padre, e con tutti i suoi 1,21 gigowatt di potenza investì il laboratorio, il tavolo, me.
In altre parole, ero nato.
Al vedere la sua casa rischiarata dal lampo, sembra che il signor Gheorge si sia ridestato di colpo dal sogno agitato che stava facendo. Mentre il tuono faceva tremare tutto, e la sala da pranzo con il tetto sfondato veniva allagata dalla pioggia, corse fuori. Ed è a quel punto che deve aver visto il pennacchio di fumo nero alzarsi dalla cima del castello. Perché, tra i contadini che vivevano nelle fattorie vicine, c’era chi giurava di averlo visto iniziare a ballare e a gridare. Questa volta per la gioia.
«Ah, ah! Avete visto? Avete visto? Neanche le vostre maledizioni possono niente contro di me!» urlava sotto la pioggia battente, zuppo fino alle mutande.
«Tutto il vostro odio si è ritorto contro di voi e il vostro alleato! I miei lamponi? Non li avrete mai! I miei lamponi? Mai! I miei…». Per farlo smettere questa volta non c’era stato bisogno dei gendarmi. Posso solo immaginare la faccia che deve aver fatto quando ha scoperto che il fumo veniva anche dal suo campo. Perché il primo palo di ferro, quello che gli aveva sfondato il tetto di casa, quello che aveva rimosso a fatica con l’aiuto di due buoi e trainato fino al campo di lamponi, piazzandolo lì in orizzontale come barriera, aveva attirato una delle scariche secondarie del fulmine. Incenerendo in una frazione di secondo i migliori lamponi probabilmente del mondo conosciuto.
****
Mentre giravo in tondo nel laboratorio, non sapendo esattamente cosa fare, mentre mi sentivo la testa pesante e la mente confusa (perché la mia testa… beh, è effettivamente pesante. Quanto alla confusione, le mie valvole stavano immagazzinando troppe informazioni contemporaneamente, dandomi quella strana sensazione di vertigine), sentii qualcuno arrivare di corsa lungo il corridoio.
Aprii la porta di ferro della stanza, e me lo trovai di fronte:
Victor.
Indossava una di quelle vestaglie che gli avrei visto in seguito addosso quasi sempre quando era in casa. I capelli pettinati, un libro ancora in mano. Era però tutto trafelato. Aveva fatto le scale di corsa e ora non riusciva a parlare per l’affanno. Restò a fissarmi per qualche secondo con gli occhi spalancati, ancora incredulo. Poi iniziò a sorridere, e il sorriso si trasformò in una risata piena di gioia. Allungò una mano per toccarmi, e si beccò una bella scossa, visto che ero ancora carico di elettricità per il fulmine: «Benvenut… aaah! La scarica. Sono il solito sbadato».
Si abbassò con la mano i capelli bianchi, e tornò a sorridermi, ma con gli occhi pieni di lacrime: «Ciao», mi disse. «Benvenuto al mondo, figlio mio».
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Secondo il romanzo della signora Shelley, io sarei una specie di golem. Un essere cui Victor - descritto, vai a sapere perché, come uno svizzero nato a Napoli - ha dato vita partendo da materia inanimata, dopo aver studiato a lungo la decomposizione dei cadaveri. Un miracolo della chimica. Non si poteva mica pretendere che una saggista londinese comprendesse la tecnologia avanzata del dottor Frankenstein, siamo d'accordo, e la sua versione era sempre meglio di quanto si sarebbero poi inventati in quel posto chiamato Hollywood... ma cosa le costava chiedere?
Nel libro si legge che, inorridito dalla mia vista, Victor mi avrebbe rifiutato subito dopo la mia creazione. Il che mi avrebbe spinto in seguito a cercare vendetta uccidendo tutta una serie di persone vicine al dottore: il fratello, un amico, la moglie. Nonostante le mie capacità di analisi del livello d'interesse medio generato da un testo di narrativa possano essere discostanti dalla… sì, insomma, per quanto non sia molto pratico del genere, arrivo a capire che scrivere di una creatura meccanica la cui programmazione non conosce la violenza, impegnata soprattutto a sollevare macchinari pesanti e mandare a memoria libri interi in pochi minuti non fosse propriamente un intreccio esaltante per un romanzo. Che per stupire suo marito e i suoi amici, Polidori e Byron, in quella vacanza a Villa Diodati, Mary aveva barato, lavorando di fantasia su una storia vera.
Anche John Polidori, del resto, con Il Vampiro aveva fatto lo stesso.
Ma dipingermi come un assassino rancoroso? Fantasia per fantasia, non andava bene un impavido esploratore delle foreste africane? Non bastava un valente pioniere dell’Ovest? Un forzuto circense/professore di lettere, capace di stupire i bambini con la sua forza e con una cultura spaventosa? E quella storia dell'altro mostro, una donna, creato e poi distrutto da mio padre? Victor, l'inventore dello scacciamosche gentile?
Mentre bevo i sei litri d'acqua che mi ha portato la hostess, il servizio di intrattenimento di bordo passa a un altro brano. Secondo il depliant che ne illustra i contenuti, si tratta del remix di Could you be loved.
Could you be loved and be loved, canta Damian Marley, il figlio più giovane di Robert Nesta Marley, detto Bob (Nine Mile, 6 febbraio 1945 – Miami, 11 maggio 1981), cantautore, chitarrista e attivista giamaicano. Di figli Victor diceva sempre a tutti di averne due, e di quello più grande e grosso non è mai stato né inorridito né pentito.
Potresti essere amato e amato.
Era mio padre e mi voleva un sacco di bene, se proprio vogliamo dirlo.
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Decise di assemblare un enorme parafulmine: un palo di ferro appuntito in cima e lungo nove metri, da piazzare in cima al castello. Al di là della spesa per mettere le mani su tutto il metallo necessario (addio candelabri di Dora), il montaggio in sé si era rivelato piuttosto problematico, visto che il vento che sferzava senza sosta il castello continuava a buttar giù quella stramba pertica. Una, due, tre volte. E in una di quelle occasioni le raffiche erano state talmente violente da spedire il parafulmine, come un gigantesco giavellotto, a conficcarsi nella casa di un contadino che abitava a qualche centinaio di metri dal castello.
Il contadino non l’aveva presa particolarmente bene.
Alla fine, mio padre decise di bucare il tetto del suo laboratorio principale, in modo da far spuntare fuori l’antenna solo per metà: l’altra metà partiva dal centro della sala ed era collegata direttamente a un tavolo di metallo, su cui ero adagiato io. A quel punto bastava solo aspettare la scintilla: un bel temporale che si portasse dietro un fulmine da 1,21 gigowatt, pronto a esser catturato dal più grosso e brutto parafulmine che lo stato di Hessen avesse mai visto. Solo che era la fine di giugno, e a Darmstadt c’era una sola cosa più insopportabile dei lunghi inverni gelidi e pieni di neve. Le lunghe estati torride e senza una goccia di pioggia. Victor, come avrebbero testimoniato i suoi diari, dopo una decina di giorni spesi ad aspettare inutilmente un temporale, nel suo laboratorio arroventato dal sole, aveva deciso di rimandare il discorso all’autunno. Aveva chiuso la sala ed era tornato a occuparsi al piano di sotto di altri suoi lavori minori rimasti incompiuti. Come un qualche macchinario a vapore che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto sostituire il lavoro umano nel lavaggio dei panni (stando alle pagine del diario di quel periodo, gli esperimenti precedenti non avevano portato infatti i frutti sperati: oltre a lavarli, proseguivano, a seconda del prototipo, con il dar fuoco ai vestiti, tingerli completamente di nero, ridurli in coriandoli, mangiarli).
Poi, semplicemente, come tutte le cose semplici eppure meravigliose della vita, come la vita stessa, accadde.
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E soprattutto cosa cavolo fosse successo.
Era successo, ma l’avrei scoperto solo molto dopo, che il signor Gheorge aveva deciso proprio quella sera di iniziare il raccolto dei suoi lamponi. Ora, si dà il caso che B. Ohy Gheorge era un vecchio rompiscatole odiato da tutti giù in paese. Talmente odiato, che quando uno dei parafulmini instabili sperimentati da mio padre si era staccato per il vento da un torrione del castello e gli era precipitato dritto in casa, trafiggendo tetto e tavolo da pranzo, buona parte degli abitanti di Darmstadt avevano accolto la notizia con gioia, vedendoci quasi una punizione divina per quell’anziano contadino dai modi francamente insopportabili.
Perché avessero in odio il signor Gheorge non è ben chiaro, ma pare che alla base di tutto ci fossero proprio i suoi lamponi. I migliori lamponi di Darmstadt. Della contea. Dello stato di Hessen. Forse dell’intera confederazione germanica.
Il problema era che, ormai da anni, l’arzillo vecchietto non permetteva a nessuno di mangiarli: non li vendeva, non li regalava, non lasciava avvicinare anima viva ai suoi preziosi arbusti. Ché, sembra continuasse a ripetere, i suoi lamponi l’avevano tenuto in forma fino a quel momento, e non poteva mica sprecarli per rendere felice tutta quella massa di invidiosi paesani, sempre lì a parlar male di lui dietro le spalle. La notte in cui quel palo lungo dodici metri era piovuto dal cielo, beh, quella era stata l’ultima goccia. Il vecchio Gheorge si convinse che i villici di Darmstadt erano arrivati al punto di ordire un attentato alla sua vita pur di impadronirsi del suo raccolto. Il ricordo della scena seguente, di Bartholomeus Ohy Gheorge che arriva nella piazza del paese urlando come un pazzo, penso sia rimasto vivo nella mente degli abitanti del villaggio per decenni.
«Pensavate di farmela, eh?», gridava agitando i pugni a mulinello nell’aria, mentre le prime teste iniziavano a far capolino assonnate dalle finestre. «Credevate di togliermi di mezzo, in combutta con quel dottore mezzo pazzo che abita nel castello, vero? Ero seduto proprio a quel tavolo, quando quella cosa lo ha sfondato in due. Ma i riflessi, i riflessi incredibili che mi regalano i miei adorati lamponi, mi hanno salvato. Rassegnatevi: non metterete mai le vostre luride mani sui miei frutti. Mai! Mi sentite? Mai! Avete capito? Mai! È chiaro? Mai!…».
Pare sia tornato a casa solo la mattina dopo, portato di peso dai gendarmi. Anche loro innervositi dalla notte passata in bianco per le urla del contadino. La piazzata non aveva peraltro aiutato molto la popolarità del signor Gheorge. Ora, grazie ai miei studi so bene che le credenze popolari legate a malocchio, sfortuna, cattiva sorte non hanno alcun fondamento scientifico, eppure…
Non è facile spiegarlo, ma proprio mentre Victor installava nel laboratorio il suo ultimo parafulmine, gli abitanti di Darmstadt iniziarono a desiderare che il campo del vecchio Gheorge prendesse spontaneamente fuoco. Finché, come raccontano le cronache del paese, un violentissimo temporale scosse all’improvviso una notte di fine giugno, fino a quel momento serena come tutte quelle che l’avevano preceduta e l’avrebbero seguita. Il cielo limpido della contea venne squarciato da un fulmine enorme, che con ogni probabilità si sarebbe abbattuto proprio sulla casa dell'odiato contadino. Ma la scarica venne intercettata dal parafulmine installato da mio padre, e con tutti i suoi 1,21 gigowatt di potenza investì il laboratorio, il tavolo, me.
In altre parole, ero nato.
Al vedere la sua casa rischiarata dal lampo, sembra che il signor Gheorge si sia ridestato di colpo dal sogno agitato che stava facendo. Mentre il tuono faceva tremare tutto, e la sala da pranzo con il tetto sfondato veniva allagata dalla pioggia, corse fuori. Ed è a quel punto che deve aver visto il pennacchio di fumo nero alzarsi dalla cima del castello. Perché, tra i contadini che vivevano nelle fattorie vicine, c’era chi giurava di averlo visto iniziare a ballare e a gridare. Questa volta per la gioia.
«Ah, ah! Avete visto? Avete visto? Neanche le vostre maledizioni possono niente contro di me!» urlava sotto la pioggia battente, zuppo fino alle mutande.
«Tutto il vostro odio si è ritorto contro di voi e il vostro alleato! I miei lamponi? Non li avrete mai! I miei lamponi? Mai! I miei…». Per farlo smettere questa volta non c’era stato bisogno dei gendarmi. Posso solo immaginare la faccia che deve aver fatto quando ha scoperto che il fumo veniva anche dal suo campo. Perché il primo palo di ferro, quello che gli aveva sfondato il tetto di casa, quello che aveva rimosso a fatica con l’aiuto di due buoi e trainato fino al campo di lamponi, piazzandolo lì in orizzontale come barriera, aveva attirato una delle scariche secondarie del fulmine. Incenerendo in una frazione di secondo i migliori lamponi probabilmente del mondo conosciuto.
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Victor.
Indossava una di quelle vestaglie che gli avrei visto in seguito addosso quasi sempre quando era in casa. I capelli pettinati, un libro ancora in mano. Era però tutto trafelato. Aveva fatto le scale di corsa e ora non riusciva a parlare per l’affanno. Restò a fissarmi per qualche secondo con gli occhi spalancati, ancora incredulo. Poi iniziò a sorridere, e il sorriso si trasformò in una risata piena di gioia. Allungò una mano per toccarmi, e si beccò una bella scossa, visto che ero ancora carico di elettricità per il fulmine: «Benvenut… aaah! La scarica. Sono il solito sbadato».
Si abbassò con la mano i capelli bianchi, e tornò a sorridermi, ma con gli occhi pieni di lacrime: «Ciao», mi disse. «Benvenuto al mondo, figlio mio».
[CONTINUA tra due settimane]
A me Frankie fa una tenerezza incredibile. Mi piace molto la rilettura del personaggio in chiave Pinocchio. Vai così, doc!
RispondiEliminaPS
Ho riletto alcune parti di E' che poi al destino con la release gratuita. La nuova storia di fantascienza è perfino più feroce di quella del serial killer! :)
@Doc.
RispondiEliminaHo appena sentito che c'è stata una forte scossa di terremoto dalle tue parti, magnitudo 5, tutto OK???
1,21 gigowatt...lo prendiamo come citazione oppure come easter egg?
RispondiElimina@Doc
RispondiEliminaoltre a poter fare copia e in colla dei commenti già fatti sul romanzo in parola mi unisco alla preoccupazione di Bluecyber, tutto bene?
Quoto Il Coinc, ho pensato la stessa identica cosa.
RispondiEliminaCitazione, ovvio :)
RispondiEliminaQuanto alla scossa, tranquillizzo tutti: si è solo ballato un po' qui in città; l'epicentro era sulle montagne.
Citazione giustamente del 26 ottobre, 27 (!) anni dopo :)
RispondiElimina@Doc.
RispondiEliminaMeglio così che poi se no noi antristi si va in paranoia, ci si preoccupa e ci vengono gli occhi lucidi napulitani. :)
Cinque alto a Leomax che ha beccato il VERO easter egg :)
RispondiEliminaValvole, vapore e lamponi :-)
RispondiEliminaDomanda: ma il vecchio B.Ohy Gheorge cantava nei Kultur Klubb? XD
RispondiEliminaQuando (bada bene: QUANDO, non SE...) pubblicherai su carta piazzaci pure un indice di citazioni/metariferimenti/easter-gg/etc...
RispondiElimina:D
Arno_Bledd:
RispondiEliminaquello.
omoragno:
Sure.
Mi sta prendendo molto più la storia di Frankie che quella del game designer!
RispondiEliminaOttimo lavoro Doc! Continua così!
B.Hoy Gheorge coi lamponi? LOLWUT? :-D
1,21 gigowatt !
RispondiEliminaSei un genio doc !
RispondiEliminaQuesta versione mi sembra molto più credibile di quella della Shelley :D Per caso si potrebbero avere maggiori informazioni sull'ispirazione di Polidori per 'Il vampiro'? :-)
Amaranta:
RispondiEliminaPiù avanti arrivano anche quelle :)
@Amaranta:se non ricordo male, fondamentalmente parafrasava il suo rapporto con Byron.
RispondiElimina