Frankie se ne va a Hollywood, parte 3
Terza parte del romanzo a puntate Frankie se ne va a Hollywood (la prima e la seconda le trovate qui, oppure cliccando con sicumera sull'apposito pulsantone nella barra laterale). Com'è che il tenero automa creato da Frankenstein è diventato un mostro rancoroso e vendicativo nel romanzo della Shelley? Così va la vita.
.3
Ho trascorso i miei primi anni di vita, se così possiamo dire, senza grandi scossoni nel castello in cima alla collina. Victor aveva messo a posto le logovalvole beta difettose che limitavano enormemente le mie capacità espressive: ora il mio vocabolario non era più limitato come prima solo alle parole che iniziavano con le lettere C e G. Ma come per tutte le cose su cui metteva mano, nel ripararmi Victor aveva rotto altre valvole: ora il mio vocabolario era limitato solo alle parole che iniziavano per Z. Più lontano che chiamare mio padre zelante e mio fratello Hanz zuzzurullone, in pratica, per un po' di tempo non sono riuscito a spingermi. […]
Hanz. Sin da piccolo aveva mostrato temperamento e aspirazioni più simili a quelle della madre che a Victor. Non era mai contento, si lamentava di ogni cosa, e presto avrebbe rimproverato al vecchio dottore a) di non aver saputo sfruttare adeguatamente il suo genio per guadagnare un sacco di soldi, impegnato com’era a inseguire la leggenda della Pietra Filosofale, e b) di non essersi impegnato per accontentare Dora. Di averla allontanata da se stesso e dal figlio, costringendolo a crescere senza una madre accanto. Che quando a scuola si festeggiava il giorno della mamma, e tutti i suoi compagni preparavano dei regalini con le pigne e i fiori secchi, lui non sapeva proprio cosa fare, e gli prendeva un tale sconforto che poi dava calci al muro per tutto il pomeriggio.
Ho sempre avuto il sospetto che Hanz non mi considerasse esattamente come un fratello. Più cresceva e più spesso anche lui come Dora, quando parlava con Victor, usava quella parola per indicarmi.
Il depliant che illustra i contenuti del servizio d'intrattenimento per i passeggeri indica che quest'altro è un brano di Eminem. Solo che Eminem non si chiama davvero così: su Wikipedia c'è scritto nome d'arte di Marshall Bruce Mathers III, detto anche Slim Shady.
Ho creato un mostro, dice.
Mostro.
Un giorno, però, Victor tornò dal paese visibilmente fuori di sé. Dopo aver sbattuto il portone d'ingresso, prese a urlare cose incomprensibili. Era talmente raro vederlo arrabbiato che io e Hanz ci fissammo in silenzio per diversi secondi prima di deciderci a chiedergli cosa fosse successo.
«Papà? Che hai?», provò timidamente Hanz da sotto la sua frangia bionda.
Victor non rispose subito. Continuando a sbuffare, si sfilò il camice vecchio e sdrucito e gli scarponi senza lacci, indossò una delle sue vestaglie con lo stemma nobiliare e prese a pettinarsi freneticamente i capelli, per abbassare il gran ciuffo centrale.
«Papà?» provai a inserirmi io.
Solo dopo aver ridato un senso alla sua chioma, sedando a fatica le ciocche ribelli sparate verso l'alto con la cera, Victor si lasciò crollare sulla sua poltrona e sfilò dalla tasca del camice da laboratorio con cui era rientrato un piccolo fagotto. Un pacchetto avvolto nella carta da spedizioni, che rimase a fissare con rabbia per un lasso di tempo che ci sembrò non finire mai.
«Hanz, tu eri troppo piccolo per ricordarlo, ma Frankie... ricordi quella donna straniera, quella scrittrice che venne a trovarci poco dopo la tua nascita? Quella che ti faceva tutte quelle domande?».
«Quella, uh, che Dora aveva definito cretina di una inglese?» .
«La tua memoria mi stupisce sempre. Sì, proprio lei».
Si alzò, arrivò davanti al camino e, dando le spalle a me e Hanz, vi gettò la carta che avvolgeva quel misterioso pacchetto. Il fuoco ingoiò l'involucro con una sinistra vampata di un rosso intenso.
Quindi il dottore si girò verso di noi per mostrarci cosa reggeva in mano. Le dita di Victor stringevano un piccolo libro, dalla copertina di pelle verde. Il titolo sul frontespizio, inciso con profondi e piuttosto discutibili caratteri gotici, era: Frankenstein, o il moderno Prometeo.
«Beh, figli miei. Dora una volta tanto aveva ragione: quella donna è davvero una cretina».
Questa donnina minuta, con il naso affilato, i capelli neri tutti crespi, infilati a forza in una cuffietta di uncinetto, e il vestito pieno di merletti bianchi e neri, disse di essere una saggista e biografa in viaggio per raggiungere suo marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, e alcuni loro amici per una vacanza in Svizzera. Viaggio che era stato costretto a una sosta imprevista proprio a Darmstadt per un problema sulla linea ferroviaria. Una mucca era rimasta incastrata con uno zoccolo in un binario e aveva bloccato per ore qualsiasi collegamento, visto che l’unico maniscalco del paese era partito per Vienna per inseguire il suo sogno di diventare un ballerino classico. Così va la vita.
Nella locanda in cui aveva trovato alloggio, Mary aveva sentito parlare di questo posto, di Castle Frankenstein, della creatura incredibile che si mormorava vi abitasse, e, soprattutto, della mente brillante del padrone di casa. Un uomo avanti con l’ingegno più che con gli anni. Uno scienziato che lei, biografa abituata a seguire sempre il proprio istinto, voleva avere l’onore di conoscere. Dora aveva accolto la donna con tutta la freddezza di cui era capace, ma a Victor faceva piacere discutere dei suoi lavori e delle sue ricerche con una persona che sapeva in grado di comprendere il suo genio, una donna di cultura e ricca di classe, letterata e figlia di due filosofi. Nei tre giorni che fu nostra ospite a Castle Frankenstein, Victor fece perciò fare alla signora Shelley un giro completo dei suoi laboratori, dagli esperimenti per la Pietra Filosofale (che sino a quel momento avevano fruttato solo un catalizzatore in grado di trasformare il piombo in… piombo più leggero. Ma anche molto più fragile) al nuovo vapoaratro a turbina, passando per l’ultimo modello del fringuello da richiamo per la caccia agli ultrasuoni (la precedente versione aveva il brutto difetto di disorientare la cacciagione e far impazzire i cani da punta. Ma Victor, diceva, ci stava lavorando). Naturalmente aveva conservato per ultima l’opera di cui andava più orgoglioso. Ricordo ancora l’espressione che assunse il viso della Shelley quando mi vide per la prima volta. Victor le fece strada nella grande biblioteca, raggiungendomi al tavolo sul quale stavo sfogliando contemporaneamente un vecchio volume sulla storia delle dottrine politiche e un libro di cucina (non so bene perché, ma mi piaceva mandare a memoria CONTEMPORANEAMENTE i princìpi base della democrazia e le ricette per preparare i bignè alla crema chantilly).
«E questo», esordì Victor, celando a fatica il suo entusiasmo, «questo è il mio capolavoro: Frankie».
«Oh».
La donna che tanto avrebbe scritto sul nostro conto era rimasta letteralmente senza parole. Intimorita, ma anche animata da un viva curiosità, si teneva una mano davanti alla bocca, e continuava a fissarmi con i suoi occhietti scuri.
Come avevo appreso da un testo sul galateo, mi alzai e le cercai la mano per baciarla, ma la signora Shelley si ritrasse di scatto. Per rompere l’imbarazzo che si era creato, ma senza mancare ai doveri di un galantuomo, pensai allora che forse sarebbe andato bene lo stesso rivolgerle un leggero inchino con il capo. Ma, non padroneggiando ancora bene la mia mole, centrai in pieno con la fronte il grosso lampadario appeso con delle catene al soffitto, che prese a oscillare alternando ombra e luce sul viso di tutti e tre.
Solo quando tornai a sedermi (e il lampadario si fu fermato), la donna sembrava essersi ripresa dallo spavento e dallo stupore.
«Incredibile. Davvero incredibile», concesse a Victor, con un filo di voce e deglutendo più volte.
«Dottor Frankenstein! Dottore!» l’aveva chiamato la donna dall’uscio del suo negozio, vedendolo tagliare il villaggio a passo spedito, avvolto nel suo camice. «Venga, venga a vedere! Non ci crederà, ma mi è arrivato un romanzo che parla di lei!».
Sentendo il suo sfogo, capivo ovviamente le ragioni di Victor. Ma non le condividevo. Nonostante quanto avrebbe fatto credere a tutti proprio la signora Shelley con il suo libro, io non mi arrabbio. Mai. Cioè, non è che sia un mago dell’autocontrollo o qualcosa del genere: è che non sono proprio in grado di farlo. La programmazione delle mie valvole primarie di fatto me lo impedisce, in quanto include solo sentimenti positivi. Però in quella situazione avvertivo comunque uno strano fastidio. Mi dispiaceva che Victor fosse stato preso in giro, e, certo, mi rattristava vederlo così nervoso, ma a darmi quella strana sensazione era più che ogni altra cosa il fatto che la signora Shelley, nel suo romanzo, aveva scritto su di me una quantità enorme di cavolate.
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Ho trascorso i miei primi anni di vita, se così possiamo dire, senza grandi scossoni nel castello in cima alla collina. Victor aveva messo a posto le logovalvole beta difettose che limitavano enormemente le mie capacità espressive: ora il mio vocabolario non era più limitato come prima solo alle parole che iniziavano con le lettere C e G. Ma come per tutte le cose su cui metteva mano, nel ripararmi Victor aveva rotto altre valvole: ora il mio vocabolario era limitato solo alle parole che iniziavano per Z. Più lontano che chiamare mio padre zelante e mio fratello Hanz zuzzurullone, in pratica, per un po' di tempo non sono riuscito a spingermi. […]
Hanz. Sin da piccolo aveva mostrato temperamento e aspirazioni più simili a quelle della madre che a Victor. Non era mai contento, si lamentava di ogni cosa, e presto avrebbe rimproverato al vecchio dottore a) di non aver saputo sfruttare adeguatamente il suo genio per guadagnare un sacco di soldi, impegnato com’era a inseguire la leggenda della Pietra Filosofale, e b) di non essersi impegnato per accontentare Dora. Di averla allontanata da se stesso e dal figlio, costringendolo a crescere senza una madre accanto. Che quando a scuola si festeggiava il giorno della mamma, e tutti i suoi compagni preparavano dei regalini con le pigne e i fiori secchi, lui non sapeva proprio cosa fare, e gli prendeva un tale sconforto che poi dava calci al muro per tutto il pomeriggio.
Ho sempre avuto il sospetto che Hanz non mi considerasse esattamente come un fratello. Più cresceva e più spesso anche lui come Dora, quando parlava con Victor, usava quella parola per indicarmi.
Il depliant che illustra i contenuti del servizio d'intrattenimento per i passeggeri indica che quest'altro è un brano di Eminem. Solo che Eminem non si chiama davvero così: su Wikipedia c'è scritto nome d'arte di Marshall Bruce Mathers III, detto anche Slim Shady.
Ho creato un mostro, dice.
Mostro.
****
A ogni modo, dicevo, si stava tranquilli noi tre. In quelle lunghe, interminabili giornate piene di neve nello stato di Hessen, davo una mano a Victor nei suoi lavori: sollevavo macchinari troppo pesanti, gli sgretolavo a mani nude le rocce quando gli servivano dei minerali per la sua pietra miracolosa, tenevo sospeso sulla testa il tavolo da venti coperti del salone centrale quando proprio doveva passare la scopa. Cose così. Mio padre si era lentamente ripreso dall'abbandono di Dora, anche se quella tristezza di fondo non l'aveva mai lasciato. Stava lì a inventare sempre nuovi giochi per tenere impegnati me e Hanz, passatempi creativi e istruttivi. E ogni tanto inaspettatamente distruttivi. Come quei piccoli esperimenti chimici con il nitrato d'argento, uno dei quali aveva fatto venir giù un'intera parete nel laboratorio, e ricoperto tutti e tre di polvere e calcinacci. Così va la vita.Un giorno, però, Victor tornò dal paese visibilmente fuori di sé. Dopo aver sbattuto il portone d'ingresso, prese a urlare cose incomprensibili. Era talmente raro vederlo arrabbiato che io e Hanz ci fissammo in silenzio per diversi secondi prima di deciderci a chiedergli cosa fosse successo.
«Papà? Che hai?», provò timidamente Hanz da sotto la sua frangia bionda.
Victor non rispose subito. Continuando a sbuffare, si sfilò il camice vecchio e sdrucito e gli scarponi senza lacci, indossò una delle sue vestaglie con lo stemma nobiliare e prese a pettinarsi freneticamente i capelli, per abbassare il gran ciuffo centrale.
«Papà?» provai a inserirmi io.
Solo dopo aver ridato un senso alla sua chioma, sedando a fatica le ciocche ribelli sparate verso l'alto con la cera, Victor si lasciò crollare sulla sua poltrona e sfilò dalla tasca del camice da laboratorio con cui era rientrato un piccolo fagotto. Un pacchetto avvolto nella carta da spedizioni, che rimase a fissare con rabbia per un lasso di tempo che ci sembrò non finire mai.
«Hanz, tu eri troppo piccolo per ricordarlo, ma Frankie... ricordi quella donna straniera, quella scrittrice che venne a trovarci poco dopo la tua nascita? Quella che ti faceva tutte quelle domande?».
«Quella, uh, che Dora aveva definito cretina di una inglese?» .
«La tua memoria mi stupisce sempre. Sì, proprio lei».
Si alzò, arrivò davanti al camino e, dando le spalle a me e Hanz, vi gettò la carta che avvolgeva quel misterioso pacchetto. Il fuoco ingoiò l'involucro con una sinistra vampata di un rosso intenso.
Quindi il dottore si girò verso di noi per mostrarci cosa reggeva in mano. Le dita di Victor stringevano un piccolo libro, dalla copertina di pelle verde. Il titolo sul frontespizio, inciso con profondi e piuttosto discutibili caratteri gotici, era: Frankenstein, o il moderno Prometeo.
«Beh, figli miei. Dora una volta tanto aveva ragione: quella donna è davvero una cretina».
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In seguito, avrebbe detto a più riprese che tanto l’idea alla base del suo romanzo quanto quel nome, Frankenstein, erano frutto di un sogno. Ma in realtà non aveva sognato un bel niente. Durante la primavera precedente, in un giorno stranamente mite (nello stato di Hessen perfino maggio tendeva ad essere un mese particolarmente freddo), Mary Wollstonecraft Godwin in Shelley bussò alla porta del nostro castello.Questa donnina minuta, con il naso affilato, i capelli neri tutti crespi, infilati a forza in una cuffietta di uncinetto, e il vestito pieno di merletti bianchi e neri, disse di essere una saggista e biografa in viaggio per raggiungere suo marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, e alcuni loro amici per una vacanza in Svizzera. Viaggio che era stato costretto a una sosta imprevista proprio a Darmstadt per un problema sulla linea ferroviaria. Una mucca era rimasta incastrata con uno zoccolo in un binario e aveva bloccato per ore qualsiasi collegamento, visto che l’unico maniscalco del paese era partito per Vienna per inseguire il suo sogno di diventare un ballerino classico. Così va la vita.
Nella locanda in cui aveva trovato alloggio, Mary aveva sentito parlare di questo posto, di Castle Frankenstein, della creatura incredibile che si mormorava vi abitasse, e, soprattutto, della mente brillante del padrone di casa. Un uomo avanti con l’ingegno più che con gli anni. Uno scienziato che lei, biografa abituata a seguire sempre il proprio istinto, voleva avere l’onore di conoscere. Dora aveva accolto la donna con tutta la freddezza di cui era capace, ma a Victor faceva piacere discutere dei suoi lavori e delle sue ricerche con una persona che sapeva in grado di comprendere il suo genio, una donna di cultura e ricca di classe, letterata e figlia di due filosofi. Nei tre giorni che fu nostra ospite a Castle Frankenstein, Victor fece perciò fare alla signora Shelley un giro completo dei suoi laboratori, dagli esperimenti per la Pietra Filosofale (che sino a quel momento avevano fruttato solo un catalizzatore in grado di trasformare il piombo in… piombo più leggero. Ma anche molto più fragile) al nuovo vapoaratro a turbina, passando per l’ultimo modello del fringuello da richiamo per la caccia agli ultrasuoni (la precedente versione aveva il brutto difetto di disorientare la cacciagione e far impazzire i cani da punta. Ma Victor, diceva, ci stava lavorando). Naturalmente aveva conservato per ultima l’opera di cui andava più orgoglioso. Ricordo ancora l’espressione che assunse il viso della Shelley quando mi vide per la prima volta. Victor le fece strada nella grande biblioteca, raggiungendomi al tavolo sul quale stavo sfogliando contemporaneamente un vecchio volume sulla storia delle dottrine politiche e un libro di cucina (non so bene perché, ma mi piaceva mandare a memoria CONTEMPORANEAMENTE i princìpi base della democrazia e le ricette per preparare i bignè alla crema chantilly).
«E questo», esordì Victor, celando a fatica il suo entusiasmo, «questo è il mio capolavoro: Frankie».
«Oh».
La donna che tanto avrebbe scritto sul nostro conto era rimasta letteralmente senza parole. Intimorita, ma anche animata da un viva curiosità, si teneva una mano davanti alla bocca, e continuava a fissarmi con i suoi occhietti scuri.
Come avevo appreso da un testo sul galateo, mi alzai e le cercai la mano per baciarla, ma la signora Shelley si ritrasse di scatto. Per rompere l’imbarazzo che si era creato, ma senza mancare ai doveri di un galantuomo, pensai allora che forse sarebbe andato bene lo stesso rivolgerle un leggero inchino con il capo. Ma, non padroneggiando ancora bene la mia mole, centrai in pieno con la fronte il grosso lampadario appeso con delle catene al soffitto, che prese a oscillare alternando ombra e luce sul viso di tutti e tre.
Solo quando tornai a sedermi (e il lampadario si fu fermato), la donna sembrava essersi ripresa dallo spavento e dallo stupore.
«Incredibile. Davvero incredibile», concesse a Victor, con un filo di voce e deglutendo più volte.
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Quella sera, sfogliando le pagine del libro, mio padre disse a me e a Hanz che a mandarlo in bestia era soprattutto il modo in cui quella donna aveva tradito la sua fiducia. Tutte quelle domande su di me, sulla mia creazione, accompagnate dalla promessa solenne di non farne mai menzione con nessuno, e poi, beh, poi quello. Un romanzo che doveva essere andato così bene che ben quattro copie erano arrivate nello spaccio della signora Susanna Hoffs Bangles giù in paese. «Dottor Frankenstein! Dottore!» l’aveva chiamato la donna dall’uscio del suo negozio, vedendolo tagliare il villaggio a passo spedito, avvolto nel suo camice. «Venga, venga a vedere! Non ci crederà, ma mi è arrivato un romanzo che parla di lei!».
Sentendo il suo sfogo, capivo ovviamente le ragioni di Victor. Ma non le condividevo. Nonostante quanto avrebbe fatto credere a tutti proprio la signora Shelley con il suo libro, io non mi arrabbio. Mai. Cioè, non è che sia un mago dell’autocontrollo o qualcosa del genere: è che non sono proprio in grado di farlo. La programmazione delle mie valvole primarie di fatto me lo impedisce, in quanto include solo sentimenti positivi. Però in quella situazione avvertivo comunque uno strano fastidio. Mi dispiaceva che Victor fosse stato preso in giro, e, certo, mi rattristava vederlo così nervoso, ma a darmi quella strana sensazione era più che ogni altra cosa il fatto che la signora Shelley, nel suo romanzo, aveva scritto su di me una quantità enorme di cavolate.
[CONTINUA tra due settimane]
doc, nn si potrebbe fare 1 puntata alla settimana? neanche per una cassa di monster energy che ti aiuterebbe a raddoppiare la tua produttività?
RispondiEliminal'idea della Shelley che scrive il libro dopo averli incontrati è fantastica!
RispondiElimina"e gli prendeva un tale sconforto che poi dava calci al muro per tutto il pomeriggio". :) Il doc che cipiaceci.
RispondiEliminaAppassionante come sempre. Forse mi acchiappia più di badassbastards2
RispondiEliminaGrazie doc
(Osservazioni a margine, estemporanee,NON inerenti l'opera in generale.Mi si mandi pure ove si vuole, se lo si desiderasse)
RispondiElimina-Perche' Victor si sorprende delle capacita' mnemoniche di un dispositivo positronico,datonsi che e' l'unica capacita' che la creatura padroneggia senza intoppi quotidianamente?
-Perche' un maniero di Darmstadt, nella regione di Hessen, dovrebbe mai chiamarsi CASTLE Frankenstein?
PS: Il congiuntivo finale!!! +_+
RispondiEliminaMassimo, Rick, Nizzo90:
RispondiEliminagrazie per l'entusiasmo boys, ma settimanale proprio no. Non gliela si fa.
GIOCHER:
Mandarti a quel paese? E perché? Sempre amati i precisini della fungia. Lo sanno tutti.
Per la segnalazione di errori o quant'altro, ho un indirizzo email. Lo usano gli altri, puoi farlo anche tu. Non mi va di parlare del perché e del percome di un racconto nei commenti, perché a mio modo di vedere ammazza la voglia di leggerne il prosieguo. Esempio? Esempio: perché Frankie usi un tono gergale l'ho spiegato l'altra volta; tu mi sottolinei il congiuntivo, credendolo un errore, e allora non ci muoviamo più. Ti piacciono i racconti con gli spiegoni in tempo reale?
A me no. Per niente.
Per evitare la rissa dell'ultima volta, inoltre, spero vivamente la si chiuda qui.
Aye Aye, Sir.
RispondiEliminaMai fidarsi delle inglesine! Così va la vita.
RispondiEliminaLa pausa pranzo ha tutto un altro gusto con le cose del doc da leggere :)
RispondiEliminaguess who's back,
RispondiEliminaguess who's back,
guess who's back..
Per fortuna! Però continua tra due settimane.
Mannaia.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaLa curiosità di dove vuoi andare a parare è tanta però leggendolo a rate uno deve fare mente locale: a che punto siamo arrivati, che fine ha fatto l'uomo d'affari manesco?
RispondiEliminaOT a nastro - come se piovessero:
1) Ho comprato Paperinik perché mi serviva moneta per parcheggiare; era lì in edicola che mi faceva ciao ciao. La storia di esordio del personaggio è bella e mi è piaciuta. Grazie come al solito del consiglio.
2) Hai letto del buon Hulk Hogan?
3) Basta commenti, domani foto!!!
Drakkan:
RispondiEliminaEcco, appunto: sotto con 'ste foto, non facciamo i debosciati.