Ehi tu, delusa: 199X (parte 3)

Terza e ultima parte del raccontino di gioventude scritto a fine anni 90, il raccontino che fa tenerazzo. La prima parte, chi se la fosse persa, la trova qui, la seconda quo, la terza ora, qua. Enjoy.

Ore 00,22
 
“Willy! Willy!!! Ma dove vai? La macchina l’abbiamo lasciata dall’altra parte!”
“Sai che mi frega di quella lavatrice”
“Dai, Willy, fermati un attimo, porca putta…”


La frase gli rimane a metà. I piedi di entrambi si fermano. Le orecchie si alzano verso l’alto. Da una mansarda lassù, in cima a un palazzo di mattoni rossi teletrasportati qui da una qualche sitcom americana degli anni 70, le note di un pezzo house si fanno largo tra lo scroscio della pioggia.
E siamo ancora in via Kennedy.


“Elpi? Ora ho capito perché non avevi mai sentito Salvo parlare di quella Marianna”, dico, dandomi una manata sulla faccia bagnata così forte che fa splash.
“Credo di averlo capito anch’io, mi sa…”
 


Ore 00,32 

Aspettiamo l’ascensore e sorrido. Sorrido e penso.
Penso che mi dispiace, Marianna che hai 25 anni e stai per laurearti in lettere. Mi dispiace davvero. Che ti abbiamo rovinato la festa, che ti abbiamo fatto credere la cosa sbagliata. Che hai versato a terra in pochi minuti un paio di damigiane di lacrime. Ma Salvo è un nome abbastanza diffuso da queste parti. E un errore può sempre succedere. Prendi noi, che abbiamo sbagliato festa.ora vorrei tornare indietro e dirti che puoi stare tranquilla, che non è successo niente, ché la Piovra con il tuo Salvo – anche se conoscendo la tipa non ci metterei la mano sul fuoco – non ha niente a che fare.


Solo che di te non me ne frega assolutamente niente, e vorrei tornare indietro solo per quella tua amica dalla pelle scura per i troppi lettini solari. Ma, cazzo, quando uno è stanco è stanco.
 

E mi dispiace Sheila. Mi dispiace per te. Non sai quello che ti sei persa.
 

L’ascensore, più piccolo e rumoroso del precedente, spalanca con inconsueta rapidità le sue porte dopo un saltello d’entusiasmo. Scendiamo al quarto piano e la porta è aperta. La festa si è estesa abusivamente sul pianerottolo. Si parla, si fuma, si beve.
 

Entriamo, e ci sentiamo afferrare per le spalle da dietro.
 

“Ma che cazzo di fine avevate fatto?”.
Salvo il soggetto. Portatore sano di faccia di tolla.

“Sei solo?” gli chiede Elpi, sorpreso. Non può essersi già liberato dai tentacoli della piovra. È fisicamente impossibile.

“Ceeerto che non è solo!” grida lei, il terrore dei sette Mario, saltandogli sulla schiena come un koala. Uno zainetto pieno di ricci. Lo strapazza, inizia a infilargli le mani sotto la camicia. Ah, ecco.

“Dai, basta!”, le sorride lui, più che altro di disperazione. L’illuso.

Li lascio lì e mi faccio largo tra la gente, le persone che si sbattono, un caldo soffocante. Mi sfilo la felpa e la butto via, mentre Bob Marley canta “Could you be loved”. In un angolo del corridoio c’è un secchio di metallo pieno di ghiaccio in rapida liquefazione. Pesco un soldatino dal suo interno e ne tiro via il tappo con le chiavi.

Butto giù un po’ di una birretta fondamentalmente inutile, di quelle buone a sponsorizzare solo le squadre di calcio inglesi, e cerco di schiarirmi le idee.
 

Poi la vedo.
 

È distante da me, tipo, che so, tre metri e un’allungata di collo. È bionda, magra, altissima. Se ne sta seduta su una poltroncina, con le gambe lunghe due miglia l’una accavallate. Si arriccia i capelli ondulati con un dito, spargendo intorno, sulle pareti e sulla gentaglia che popola il corridoio, l’attenzione dei suoi occhioni azzurri. 

Sai che forse si riesce a recuperare la serata?
 

Finisco la birra e lascio cadere il soldatino nel secchione. Poi pesco dal suo interno una scheggia di ghiaccio superstite e me la passo lentamente sul naso, in orizzontale, da sinistra verso destra. Qualcosa sbuffa dentro di me, mentre la testa inizia ad andarsene per giri solo a lei noti, allettata da improbabili viaggi colorati, da pensieri confusi e destinati a restare incompiuti. Saranno i decibel, sarà l’alcol, sarà il cannone di prima, sarà tutta quell’acqua sulla testa, sarà perché ti amo.
 

Spengo l’audio e quei tre metri diventano zero virgola qualcosa.

Could you be loved and be loved?


Ore 00,47

 
La biondina mi racconta dei suoi studi. Della sua casa. Dei suoi mobili comprati all’Ikea. Chi non ha un mikkelbakken in salotto, di questi tempi, scherzi? 


Siamo seduti sulla stessa poltroncina. Una delle sue cosce da puledro è a stretto contatto con una mia gamba, mi manda piccole scariche elettriche attraverso i jeans. Sono la tua rana morta, galvanizzami.
 

Cerco di seguire i suoi discorsi, ma ne perdo il filo in continuazione. I neuroni, quei quattro o cinque che non mi hanno ancora abbandonato, hanno issato bandiera bianca. Mi racconta del suo cane, della sua passione per la pizza. Di quei discorsi che si fanno giusto per. Come se me ne fregasse davvero qualcosa. 

Della sua squadra del cuore, dei suoi libri.
 

La fisso con occhi liquidi, e quell’azzurro mare di ottobre che le colora lo sguardo furbo, circondato dall’eyeliner, aumenta la mia sensazione di galleggiamento.
 

Della sua auto, del suo fidanzato.
 

La ascolto e non spiccico parola per minuti e minuti. Poi riesco a concentrarmi quanto basta per mettere insieme, coagulare in domanda l’unico pensiero che mi frulla nella testa vuota.
 

“Qui dentro si muore – le chiedo sollevando l’indice davanti alle sue labbra – Usciamo un po’ fuori, ti va?”.  

Don't let them fool ya, or even try to school ya! Oh, no!



+10 giorni, ore 22,56 


Una sera fresca, un’altra giornata d’inferno alle spalle. Esco sulla terrazza per godermi un po’ d’aria respirabile.
 

Sono ancora giovane, ma non lo sarò per molto. Sono il simbolo vivente di una generazione del cazzo, senza certezze e ideali, senza miti ed eroi. Tranne, forse, la PlayStation e Totti.

Non so in quel che credo. Non so se credo. Non so.

Sono l’ultimo anello di una lunga catena che ci stiamo lentamente avvolgendo, noi tutti, attorno al collo. Sono un punk venuto su con dieci anni di ritardo e nel paese sbagliato. Sono un idiota senza futuro.

Sotto casa mia, la statale si produce in una curva parabolica, che mette fine a un lungo rettilineo. Le auto arrivano sparate fino all’imbocco della curva, poi la notte si accende delle lucine rosse dei loro stop. Ma ogni tanto qualcuna non fa a tempo a frenare, e si spiaccica contro il guard-rail. Oppure abborda il tornante con eccessiva sicurezza, finendo capottata come una tartaruga.
Guardo le lucine rosse e accendo il buio del terrazzo con la lucina gialla di una paglia, sbuffando fumo nell’aria frizzante.


La vicina di casa sta guardando una puntata del Festivalpub, e ha pensato di farlo sapere a tutto il palazzo: una lolita americana dal seno rifatto grida qualcosa sull’amore non corrisposto, i due presentatori le fanno qualche domanda, il pubblico applaude felice.


La mia vicina di casa è una buzzurra.


Mio padre ha chiamato poco meno di mezz’ora fa. Ero buttato sul letto, ascoltavo i Ramones con il cuffione da DJ. Poi ho visto la luce verde del cellulare lampeggiare, il display abitato da un nome inconsueto.
 

“Come stai?” mi fa, la voce resa ancor più distante dal vivavoce, nella sua Mercedes da commercialista.
“Normale”, mento.
“Hai proprio deciso?”
“Sì”, rispondo, fissando il vecchio poster dei Rancid, appeso obliquo sul soffitto.
“Fai come vuoi”. E chiude. Una conversazione intera con meno di dieci parole. Un cazzo di record.


Stringo la paglia tra i denti e agito i pugni nell’aria. Sinistro – destro – sinistro. Le spalle mi fanno ancora male: ieri sera sono salito sul ring.
E, per la prima volta da quando ho messo piede in quella palestra, non sono stato io a prenderle.


Avevo fatto la mia bella serie di salti alla corda e stavo sfogando un po’ di frustrazione contro il mio vecchio amico pieno di segatura. Quello che subisce senza reagire, e perciò mi sta simpatico. Poi l’allenatore, quel tipetto calvo dal fisico asciutto, con gli occhi bovini e i fasci di nervi sugli avambracci gonfi come cavi del telefono, mi si è fermato accanto.
 

“Non puoi continuare a dare pugni a un sacco – mi fa – questo non è pugilato. Mettiti il caschetto, Mister Tattoo, che stasera torni a fare un po’ di sparring. Magari stavolta cerca di non farti ammazzare”. Risatina di naso.

L’ho assecondato contro voglia e, mentre infilavo la testa nel caschetto, ho visto gli sguardi degli altri. Si sono fermati tutti, i viscidi, per farsi due risate alle mie spalle. Però senza nemmeno aspettare che mi girassi.
 

Sono salito sul quadrato, infilandomi tra le corde allentate, e ho visto con chi mi dovevo battere. Avevo di fronte un tipo con la pelle resa scura dalla troppa abbronzatura, le sopracciglie sfoltite dall’estetista, i capelli segnati dai colpi di sole. Aveva la faccia e il torso – incredibile! – cosparsi di Nivea. Praticamente il gran visir di tutti i fighetti. Tutti gli altri, attorno al ring, mi guardavano e ridevano. Anche l’allenatore. Anche Nivea Boy.
 

Willy è quello che le prende sempre da tutti.

Ho sbattuto forte i guantoni uno contro l’altro e ho abbassato la testa.
Prima ripresa: Jack la Motta contro Janiro. No, Robert De Niro contro Janiro. Niente sonoro, testa bassa.


Mi sono fatto sotto e ho iniziato a colpirlo. E ancora, e ancora.
E nessuno ha riso più.


+ 5 giorni, ore 10,28

Il sole arroventa l’asfalto, portando la temperatura del suolo a livelli venusiani. Salgo le scale del palazzo – cinque piani senza ascensore, tanto per gradire – e busso il nostro codice sulla porta nera. Due colpi di nocche leggeri e uno forte. Mi viene ad aprire con una mise improponibile: ciabattone da mare in PVC, boxer viola, maglietta verde dell’incredibile Hulk, capelli lisciati all’indietro.
 

“Ah, sei tu – mi fa – iniziavo a chiedermi che fine avessi fatto. Vieni dai. Entra”.

Si dice che ogni appartamento rispecchi la natura del suo padrone.
Quello di Elpi, infatti, è un perfetto incrocio tra la garçonnière di un dentista e il bilocale di un pusher londinese: scatoloni con giornali e riviste coprono alla vista futuribili mobili anni 70 rimediati chissà dove; poster dai colori giamaicani affiancano pareti attrezzate stracolme di libri fino all’inverosimile; lunghe sculture africane in ebano e bottigliette di birra vuote circondano il letto giapponese.
 

“Siediti lì e aspetta”, mi indica il divanetto, gli occhi già proiettati verso il televisore widescreen poggiato per terra. Sullo schermo scorrono veloci delle immagini colorate. Un omino biondo con la testolina enorme, incappucciata di verde, corre avanti e indietro agitando un martellone.
 

“Ancora con i videogiochi, alla tua età?”, gli chiedo da dietro una spalla. Non si dà la pena di rispondere a voce, staccando solo per un attimo la mano dal pad per innestarci sopra un medio.

“Allora – mi chiede, mentre l’esserino incappucciato inizia a scoccare frecce di fuoco contro degli orchi armati di lunghe lance – a cosa devo la visita?”
“Stavo mettendo in ordine un po’ di cose”
“E questo che dovrebbe significare?”, risponde lui. L’esserino salta su una barchetta e inizia a fendere alte onde increspate dal vento.
“Sono venuto a salutarti, Elpi”
“Sali a Roma? Di nuovo? Hai già finito l’erbetta medica?”
“No, non hai capito. Vado via. Torno a Roma”


La cosa deve averlo colpito. Me ne accorgo perché mette in pausa il giochino. L’esserino verde rimane congelato a metà durante un salto.
Poggia il pad per terra, poi, senza girarsi a guardarmi, parla con voce bassa:
“Così molli, eh?”
“Dai, non prenderla così. Qui non sono riuscito ad ambientarmi. Ci ho provato, lo sai. Ma non credo di esserci riuscito. Questa città è un posto tranquillo e tutto il resto, ma mi mancano il casino e la puzza”
“E tua madre?”
“Il tempo dovrebbe aver sanato ogni dissapore. Spero – rispondo alle spalle del mio migliore amico”
“Quand’è che parti?”
“Domani mattina. Ero venuto a chiederti se stasera ti andava di bere qualcosa”
Un po’ di silenzio, l’esserino sempre ibernato a metà del salto.
“Dai – gli faccio – non te la prendere. Ché non ci perdiamo mica di vista!”
“Capirai che mi frega – risponde lui. Ha riafferrato il pad e lasciato che il povero cappuccetto verde terminasse finalmente il suo balzo. In un pozzo di lava – ci si vede stasera, allora.


Mi avvio verso la porta, tra gli scatoloni.
“Ah, dimenticavo – mi fa quello dall’altra stanza – ieri sera al centro una ha chiesto di te”
“Ah, sì? Chi, Patty?”
“No, Giulia…”


Deglutisco con una forza tale che per poco non mi slogo il pomo d’Adamo.
Giulia non esiste. Non esiste più. Non… oh, cazzo…


+1 giorno, ore 11,40


Tra meno di un’ora ho il treno. Tra meno di un’ora vado via. 


Il cinquino di Elpi ruggisce sotto la pioggia e un cielo a metà tra il grigio fumo e il giallo apocalisse, facendo ballare a ogni curva le mie borse sul sedile posteriore.
“Allora, mi dici perché te ne vai?”


Elpi ha ripreso a guidare come suo solito, aggrappato al volante come un pilota da rally o una ragazzetta timida alla prima lezione di scuola guida.
Mi chiede il perché, lui, tra una grattata di terza e l’altra, mi chiede il perché. Come se ce ne fosse uno.


“Te l’ho detto ieri”, rispondo, vago.
“No che non me l’hai detto – incalza il biondino nemico giurato della frizione, sotto la sua frangia spettinata – O meglio, mi hai detto solo stronzate: che non ti piace più la città, che Roma te la senti dentro e cose così. Ma non mi hai detto la vera ragione per cui molli tutto e te ne torni nella capitale”
Ci penso su, forse la prima volta per davvero, poi – mentre Elpi infila il cinquino tra due macchine, esibendosi in un parcheggio impossibile che viola almeno un paio di leggi fisiche – do fiato ai pensieri confusi che mi attraversano la mente:
“Ho ventotto anni, Elpi. E ancora non ho un lavoro. E ancora non ho un soldo che sia mio. E ancora non ho una vita che sia mia. Me ne torno a Roma perché lì dovrebbe essere meno difficile trovare qualcosa da fare. Tutto qui. Credo”
“Mhhh… ho capito – mi fa lui dopo essersi portato una mano a reggere il mento e aver assunto un’espressione da documentarista – Dai, sbrigati che non abbiamo molto tempo”


Già, dimenticavo. 


Sollevo lo sguardo verso l’alto e vedo la sua finestra, incorniciata tra lo specchietto retrovisore e il vertice azzurrato del parabrezza.
Lei abita in una casa bassa, due piani con ingresso indipendente, il tetto coperto di tegole. Lei, ora, forse è su o forse no.
Forse vuole incontrarmi oppure no. Forse avrei fatto meglio a farmi accompagnare direttamente in stazione, a saltare questa tappa.
 

Giulia non esiste.
Di donne come lei, a Roma, ne trovo a tonnellate.
Giulia non esiste.
Giulia forse è su.


Penso, penso, penso, poi lei si affaccia dalla finestrella sul lato, sporgendo il suo profilo tra le tendine bianche di pizzo, e di pensare non c’è più bisogno.
Mi guarda e sorride.
Abbasso il finestrino e allungo la testa. Non piove più e il cielo, a nord tra i palazzi e le gru dei cantieri, ha iniziato ad aprirsi.
“Beh, non sali? Ti stavo aspettando”, mi dice lei con quella voce che non ricordavo così bella.


Cazzate, certo che lo ricordavo.
Giulia esiste. E mi stava aspettando.


Rivolgo a Elpi un’occhiata interrogativa, e il figlio di puttana fa spallucce:
“Pensavo dovesse sapere che passavi a salutarla. Metti che poi non era in casa davvero…”
Apro lo sportello, esco, poi ricaccio la testa dentro:
“Ci metto un attimo”
“See. Come no. Vai, sbrigati”


E io vado. E appena inizio a salire i quattro scalini in cotto che mi separano dal campanello, che mi separa a sua volta da quella che è la mia più grande paura, sento il cinquino mettersi in moto.
Mi giro e, rapido come vi si era infilato, il cinquino si sottrae alla morsa delle altre due vetture e rimane lì, in seconda fila, in attesa.


Suono il campanello e aspetto.
Aspetto Giulia, l’unica che abbia mai fatto breccia nella scorza di questo cattivo elemento. L’unica della quale temo ogni singola parola. L’unica che non considero solo come una bambola in pelle. L’unica.


E lei apre la porta, sorride e, senza dire nulla, mi bacia sulla guancia e, con un lieve cenno della testa, mi fa segno di entrare.
Là in alto, tra i palazzi e le cime delle gru, il sole si è liberato delle briglie dei nuvoloni e splende ora caldo, rivestendo d’oro la strada e le auto bagnate. 


Mi volto un attimo e Elpi sorride anche lui, contento. Sfila un braccio dal finestrino e mi saluta, portandosi via con una sgommata le mie borse, le mie cose, il mio piano di fuga.


Ma chi se ne fotte. Si dice che se perdi il treno della vita, poi mica quello torna più a prenderti. Magari non è vero, mi ripeto. Giulia è il mio destino, Giulia è tutto quello che…


“Oh, ti muovi o no?”.


14 

Commenti

  1. ok, non può finire così.
    è abbastanza semplice il concetto doc, non può finire così!

    detto questo, il fatto che il protagonista dica: ancora ai videogiochi alla tua età, mi ha fatto un sacco sorridere ahahah

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    1. Si anche a me la roba dei video giochi mi ha fatto pensare.. :-)
      Carino il racconto Doc,complimenti

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  2. ah, ma allora all'inizio stava davvero per morire di caldo... e io che stavo gia' assaporando un finale truculento!

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  3. un po' acerbo ma leggibilissimo,si vede che eri giovane dal cercare sempre la frase ad effetto,e le parti non sono molto armonizzate fra loro,però funziona e soprattutto ha un buon ritmo,non è poco.

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  4. Complimenti Doc!!! e' un piacere leggere le cose che scrivi, anche se di "qualche" anno fa!!!

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  5. Io apprezzo i finali aperti, davvero.... MA NON PUOI FARMI QUESTO

    Pure perche secondo me è finita male

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  6. lo sai Doc che NON è finita? che da qualche parte della tua mente c'è un 20 anni dopo? bisogba solo che tu lo trasformi in caratteri!! cmq riguardo ai videogiochi...:DDDD
    in ogni caso godibilissimo!

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  7. Bella Doc! Ci hai fatto penare questo finale, ma ne è valsa la pena. E comunque ha ragione chi dice che è continuabile :)

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  8. Beh Doc, il racconto si fa leggere :) Il finale aperto, come sempre, mi lascia con la bocca amara, ma tant'è :) non so cosa potrebbe uscirne se decidessi di continuarlo e rivederlo alla luce dei +X anni, ma credo che questo racconto sia comunque la prova che se decidessi di scrivere un libro, ce n'è a pacchi :) e non vedrei l'ora di leggerlo.
    Complimenti!

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  9. Bravo doc! Lacrimuccia da una che a 29 anni é scappata davvero (ma non da un giulio)

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  10. Bravo doc! Lacrimuccia da una che a 29 anni é scappata davvero (ma non da un giulio)

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  11. Bello, bello...finale aperto, ci sta.

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  12. Molto bello, Doc!
    Il finale aperto però è una carognata! Ci lasci tutti nel dubbio! :-P

    Certo, si nota uno stile molto più grezzo rispetto ai tuoi ultimi racconti però si vede lontano un miglio che è roba tua! E ci piace.

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