Di una notte di mezzo l’inverno

C’è una chiesa, in cima alla città.

Una vecchia costruzione in pietra scura e senza campanile, abbracciata da un tornante che stritola tra le sue spire tutta la collina, tagliando una pattuglia compatta di vecchi pioppi a guardia del nulla. Sei stato poche volte in quella chiesa, sempre per la ragione sbagliata. Non ti viene facile ricordarla perciò come un qualcosa di separato dagli uomini in nero delle pompe funebri, che grattano le suole delle scarpe di vernice sul selciato irregolare davanti al sagrato. I nodi delle cravatte nere e lucide allentati, gli occhialoni scuri a mosca, le giacche troppo larghe o troppo strette, la brillantina, la mente in missione altrove. Un incrocio tutto italiano tra killer dei manga e bagnini romagnoli.


C’è una traversina che scende lungo il fianco della chiesa, un’infilata di ciottoli neri a far pendant con i beccamorti, che porta a uno spiazzo sul retro. Un semplice quadrato tra i pioppi, a scelta parcheggio d’emergenza, albergo a ore gratuito, punto di raccolta in primavera di tanta di quella lanugine da imbottirci i cuscini di mille bed and breakfast. [...]

Sei triste, anche se il morto non l’avevi mai visto prima. Di sicuro, pensi, da vivo era una persona diversa. Di sicuro meno rigida. Ahah. Scemo. Sei triste così, di quella tristezza partecipativa che infilarti una camicia scura per la morte di un parente senza volto impone, per la tristezza letta negli occhi di quelli che sono lì e invece conosci da una vita. Tristezza di secondo grado. Le mani affondate nelle tasche posteriori dei jeans, lo sguardo a sfidare l’esercito verde silenzioso della collina, scendi la traversina per cercare un po’ di fresco nell’ombra del retro, che immagini sottratto alla ferocia del sole alto di quasi estate, nel cuore caldo del profondo sud senza Huck e Jim. Cerchi il fresco, ci trovi invece il mare.

La tua città, di solito, non ha il mare. È una banale e assonnata cittadina poggiata su sette colli. Come Roma, ma con due milioni e mezzo di abitanti in meno e una distribuzione di spazi e servizi leggermente diversa. Resti così spiazzato da quella vista, di fronte a quello che c’è e non dovrebbe esserci. Gli occhi spalancati sulle onde poco convinte di un mare scuro come il rimorso, che litiga con piccoli scogli irregolari seminati a caso sulla riva, denti di un gigante con la piorrea. L’ombra di una petroliera sfila all’orizzonte, giù verso l’altra Africa; un quarto di luna fa cartolina con un riflesso incerto sull’acqua appena increspata.

C’è il mare, nessuno te l’ha mai detto ma c’è il mare, là dietro, a un volo di corvo da casa. Tutto questo tempo, tutti questi anni e te ne accorgi soltanto adesso. Cosa ti sei perso. Perché, poi? Che senso ha? Ha il senso di una tristezza vera e profonda in cui la scoperta ti precipita. Ricacci indietro il nodo alla gola e scendi a passi rapidi la traversina, che si allarga in fondo a una curva fino a diventare una strada, cinta dai muretti e dai cancelli di piccole ville. Vuoi sapere. Vuoi arrivare giù, vedere com’è, e acceleri il passo.

Non è però più la quasi estate della tarda primavera del sud, e non è più mattina. Tiri giù le maniche della camicia, ti stringi le spalle tra le mani, mentre il vento dell’inverno ti accarezza ruvidamente la nuca e quel poco di barba di tre colori che hai in faccia. È tutto buio, ma vai avanti lo stesso, senza paura di inciampare, finché la notte si scioglie dopo un’altra curva nel pallore lattiginoso delle luminarie. Palline e lampadine colorate, addobbi di almeno quarant’anni fa, seguono il profilo di insegne e vetrine di negozi dell’epoca. Da una panetteria esce una signora accompagnata da un ragazzino bruno: lei in cappotto, lui con lupetto di lana, pantaloni attillati, polacchine, guanti a manopola, capelli a caschetto da tre quarti di ventesimo secolo. Si lasciano dietro la pioggia di perline di plastica della tendina all’ingresso, e quel clac clac ti riporta alla mente un altro ricordo ancora più vago e confuso, e lontano, e inafferrabile di un tempo che non c’è più.

Tutti si salutano, si fanno gli auguri per questo Natale dietro l’angolo anche se fino a poco fa era quasi estate. Ti guardi addosso, non hai più la camicia ma un maglione. Il freddo ti morde meno, ma la lana ti prude sulla pelle. Ma non abitavi da queste parti, un milione di anni fa? E allora perché tutto riesce ad essere così uguale e diverso? Familiare ma alienante? Prosegui. Provi a correre, ma non ce la fai, una stanchezza senza fiatone ti annoda le gambe.


La strada finisce con una rotonda senza altre uscite o altra funzione di farci le derapate con il freno a mano. Scavalchi il passamano e salti giù, sulla spiaggia, un metro e mezzo più in basso, riempiendoti all’istante le scarpe di sassolini minuscoli. Così te le togli e le butti via. La sabbia nera è fredda, ma meno di quanto ti saresti aspettato. Camminare a piedi nudi ti fa sentire bene, ti rimette al tuo posto, in contatto col pianeta che ti ha generato. Non hai paura di vetri rotti, siringhe o di quelle piccole piante spinose che bucano la sabbia e i talloni, perché sai che qui non ce ne sono. Davanti a te c’è una figura, una silhouette che fissa il mare, a un passo da quanto resta delle onde che hanno perso di nuovo la sfida con il fondale basso e si accasciano a riva spezzate.

Ti avvicini, arrivi anche tu sul bagnasciuga, lasciando piccole pozze dietro di te nelle tue impronte, finché il residuo dell’onda non le sommerge, portandoti via per un attimo anche i piedi. Anche il mare non è freddo come pensavi, quasi bastasse quello spicchio di luna o il calore del consumismo allegro di quel piccolo borgo antico prenatalizio a riscaldarlo. Non conoscevi questo posto, non avevi idea esistesse, ma lo conoscevi da sempre, ci sei stato mille volte. È la tua prima casa e anche il tuo paese delle vacanze, di tutte le vacanze che hai mai fatto, ovunque tu le abbia fatte.

La figura sul bagnasciuga non è più la silhouette nera di prima, ha il volto di un amico che non vedevi da tanti anni. L’ultima volta a una partita di calcetto, poco prima che qualcosa, nascosta sotto l’impenetrabile frase passepartout del male brutto, se lo portasse via. Cosa ci fai qui?, gli chiedi, e quello che vorresti aggiungere ti resta in gola, non ce la fai a dirlo, perché la tristezza è talmente forte che, se lo facessi, sicuro l’onda si gonfierebbe per trascinarti via. Lui si volta, gli occhi abitati dalla malinconia e il viso illuminato da un faretto blu, come in un vecchio film: “È solo un sogno”, ti dice, “ma non è bellissimo?”.
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Commenti

  1. Rememeber " we will meet again some sunny day ". So long my friend...

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  2. Un bellissimo e triste scritto di inizio estate...

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  3. So stay hard, stay hungry, stay alive if you can, and meet me in a dream of this hard land...

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  4. Ca@@o se sai scrivere. Scusa il francese.

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  5. Presto !
    Qualcuno dia un premio Bancarella a quest' uomo !

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  6. Bellissimo.. meraviglioso, emozionante e commovente.. E' bello leggerti Doc...

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  7. Ciao doc, é da ormai un anno che ti seguo,anche se questo é il mio primo commento, e non posso fare a meno di ringraziarti, penso a nome di tutti, per tutto quello che di tuo metti nei post come questo.
    Anche se penso di essere il più giovane quí (15 anni), e quindi di non essere un rEgazzino come voi, spero di essere accettato nella grande famiglia degli antristi.

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    1. Ciao Doc, scrivo anch'io tanto per dimostrare che questo blog non seguono solo i rEgazzini giovani dentro ( ho 16, quindi forse sono il più giovane dopo Davide) e devo dire che i post che preferisco di più di tutto l'Antro sono questi, che hanno un qualcosa in più senza contare che scrivi benissimo.
      Questo è il mio primo vero commento qui, spero che non esca un commento anonimo :)

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    2. Ciao Davide, Ciao Luca.
      Benvenuti ufficialmente a bordo :)

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    3. Ragazzi, io di anni batto tutti. Ho 14 anni e ormai seguo l'Antro da una vita. Grande come sempre Doc, scrivi da dio!

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  8. E siccome il magone che m'hai fatto salire c'ha bisogno del giusto clima(x), il tempo qui a Roma si mette di schifo e arriva il temporale.
    Siete due m&rde, te e Madre Natura. ;)

    PS: Come al solito, gran penna Doc. Davvero gran penna (ok, basta battutine e doppi sensi, voi seduti la dietro in fondo...)

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  9. Ogni mio personale commento sarebbe solo superfluo, perciò Doc ti faccio solo i miei complimenti per questo pensiero (forse è un sogno?) molto profondo...

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  10. raccontare così, narrare in questo modo un sogno, renderlo così vivo e reale, è qualcosa di impensabile e irrealizzabile per molti. Ma non per te Doc.
    Grazie di questa piccola perla

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  11. Come sempre rimango colpito da quello che scrivi e da come lo scrivi, e mi torna alla memoria quella volta in cui qualcuno leggendo uno dei romanzi gratuiti dell'antro ti aveva rivolto critiche su una tua presunta immaturità letteraria, bene adesso quel tizio che non ricordo più neanche chi fosse può tranquillamente andarsene al bar a bersi un cappuccino e cercare i gattini sull'internet.

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    1. Io, quando leggo il Doc, mi sento analfabeta, per dire... :)

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  12. Mi hai fatto venire in mente certe tavole di Andrea Pazienza, di quelle perse tra il sogno e i ricordi.
    Bravo Doc.

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  13. Lunedì mattina, sono in tribunale, e per ingannare il tempo tra un'udienza e l'altra leggo il quotidiano post dell'Antro. Comincio con la paura di un lutto vero, segue la tristezza evocata per il funerale del parente lontano, a cui si aggiunge la malinconia per i Natali da bambino, che non ce ne saranno più; ancora dopo, si somma il dolore per la morte di un amico, rievocata dal racconto, ed il desiderio di rivederlo, almeno in sogno. Su tutto, una sensazione di tristezza devastante, e le lacrime che cominciano a scendere. Per non farle vedere dai colleghi legulei, vado a lavarmi il viso, così si perdono come lacrime nell'acqua del rubinetto. Grazie, Doc, e buona giornata anche a te!

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  14. Senti Doc: ti voglio bene, ma perché mi devi fare piangere alle 19:30 di Lunedì?! ;)

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  15. bello... flashback come effetto collaterale... ew

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  16. Ciao Doc, faccio parte di quel gruppo di persone che non commenta mai, ma ti segue assiduamente, vorrei darti un lungo abbraccio che arrivi almeno dalla mia toscana alla tua sicilia e che serva almeno a tirarti un po' su, che asciughi quel che c'è da asciugare e che aiuti a non indurire troppo la scorza che c'è sotto pelle.
    Mi hai regalato tanti sorrisi anche in quei giorni dove proprio non ne avevo voglia, sarei lieto se almeno avessi contribuito un minimo ad alleviare il tuo dolore.
    Un grande abbraccio.

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    1. Magari stesse in Sicilia, sarei felice come una Pasqua passata dalla nonna!!

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  17. baccalaiuolo errante9 giugno 2015 alle ore 00:40

    la dolce malinconia di queste parole è eccezionale...che la mano gentile della serenitá possa accrezare la tua anima..grazie doc...non piango ma ho gli occhi pieni di lacrime...che ě anche peggio...

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  18. Miseria Doc, tu non e' che scrivi, tu dipingi un mondo con le tue parole. La sorpresa di guando ti accorgi che li' dietro c'e' il mare e nessuno te lo aveva mai detto evoca emozioni oniriche cosi' basiche del nostro inconscio e per questo di una potenza incredibile. Cosi' come il senso indefinito di tristezza, i natali perduti, qualcuno che ti aspetta sulla spiaggia, unico luogo possibile d'incontro fra voi.
    Grazie.

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  19. leggo solo stamattina... Complimenti, Doc, mi sento molto vicino....
    La realtà degli ultimi capoversi l'ho provata anch'io... e tanti con noi e come noi...

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