Distretti alieni in un paese alieno

E cosí eccoti qua, di nuovo. Mentre in patria i ragazzi di Mou si preparavano al meglio per la sfida di mercoledí con gli inglesi, sfiancandosi per un'ora in nove pur di far incazzare Simone Soletta, tu mettevi piede a Narita. Ad accoglierti, l’ormai familiare teoria di ragazze con le ginocchia sbiruline e le orecchie sintonizzate sul astra e hotbird, e inservienti in guanti bianchi con corsa supermaria. Sí, col saltello.

La prima volta che sei stato in cittá, ormai cinque anni orsono, hai alloggiato proprio in questo albergo, al diciassettesimo piano. Dopo tutto questo tempo, dopo aver girato buona parte degli hotel di Shinjuku e Shinagawa e financo Chiba, torni qui e ti danno una stanza che é proprio esattamente... uh, no. Questa sta su un altro piano. Da tutt‘altra parte. Comunque.
In aereo, essendo com’eri iscritto tra una colombiana cessa russante e una giapponese nana che aveva ingoiato anch’essa un trombone con tutta la custodia, ti sei visto due film e mezzo di fila. Tipo quelle cose che faceva Maderna quando era ancora giovane. Il primo é District 9, che é questo film diretto da Neill Blomkamp e ambientato in Sudafrica che parla di questi alieni arrivati negli anni 80 e segregati in un quartiere ghetto. E il fatto che il tutto si svolgesse a Johannesburg e che si parlasse di gente segregata ti ha fatto pensare, mentre assaggiavi la suggestiva interpretazione offerta dal catering alitalio del concetto di lasagna, che ci dovesse essere un qualche intento metaforico nella scelta della location. Tipo che Lippi e i suoi st’estate faranno una gran figura dimmerda, o qualcosa del genere [...]
District 9 si potrebbe definire in effetti come un mirabile pastiche cinematografico, una sintesi parecchio metareferenziale dei primi horror a base di xenofagia di ciccio pitergékso (Bad Taste), di Fanteria dello Spazio di Verhoeven, de La Mosca, di Rambo. Sí, Rambo. O lo si potrebbe definire semplicemente bello. Bel film.
Il secondo film era La dura veritá. Che non era, come pur pensavi, un documentario sulla vera storia di John Holmes, ma questa commediola ammerrigana con Gerard Butler (condannato dopo le testosteroniche minchiate di 300 ad accettare trecento ruoli del cazzo per non essere etichettato come icona gay del millennio) e la Heigl, la biondona da unmetroenovanta di Grey’s Anatomy. Simmetricamente lontano tanto dalle sboccate, gioiose minchiate di Judd Apatow quanto da molti stereotipi della commedia sentimentale ammerrigana media, La dura veritá cita un paio di volte di troppo per i tuoi gusti Harry ti presento Sally. Cagata, ma cagata che si consiglia di far vedere alle proprie signore. Magari imparano qualcosa.

Il mezzo film era l’ultimo lavoro di Tony Scott. 1-2-3 Stellham!, o qualcosa del genere. Un Travolta ormai ben oltre i trecento chili é il protagonista di una storia che, cosí su due piedi, a giudicare dalla prima mezz’ora ti sembrava in linea con buona parte della produzione di Scottino. Cioé una porcheria. Ma poi ti sei addormentato, che il concerto delle due si é quietato per un attimo, e magari dopo veniva fuori un film della madonna. Vallo a sapere. Nel frattempo sulla televisione locale imperversa un gruppo di coglioni truccati come i Tokyo Hotel e vestiti come Songoku, che ti interrompono ogni due secondi le pubblicitá. Hai bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. Nettamente.

Commenti

  1. Due film e mezzo di fila me li guardo ancora oggi come se niente fosse, tzè.

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